Le varici vulvari provocano disagio nelle donne affette

Varici vulvari in gravidanza: cosa sono e quali rimedi

Le varici vulvari sono vene ingrossate che compaiono nelle parti intime soprattutto durante la gravidanza. Per molte donne si tratta di un problema poco conosciuto e spesso fonte di imbarazzo. A preoccupare è anche il fatto che possano provocare trombosi o che possa partire un embolo.

Spesso le pazienti che hanno varici vulvari non sanno bene a chi rivolgersi. Il ginecologo di solito non le tratta, ma può essere difficile anche trovare un chirurgo vascolare o un flebologo che conosca questa patologia e sappia come intervenire.
Inoltre, poiché questo problema ha a che fare con la cura della propria intimità, molte pazienti sono poco propense a farsi vedere da un dottore.

Quindi cosa devi fare se soffri di varici vulvari?
Se vuoi fare chiarezza e toglierti qualche dubbio sul dolore intimo, in questo articolo voglio spiegarti in cosa consiste questo problema e cosa puoi fare per risolverlo. Il tutto sulla base delle evidenze scientifiche e analizzando gli studi più recenti.

Varici vulvari: cosa sono?

Con il termine “varici vulvari” intendiamo la presenza di vene varicose a livello dei genitali esterni femminili. Come sai, i genitali esterni femminili sono la vulva e il clitoride. La vulva presenta due pieghe per ogni lato, chiamate grandi e piccole labbra.

Ma cosa sono le vene varicose? Facciamo un passo indietro.
Per vene varicose intendiamo vene dilatate e flaccide che hanno perso la capacità di drenare il sangue. Nelle donne rappresentano un problema frequente e si formano soprattutto nelle gambe, provocando anche brutti inestetismi.

vene varicose sulle gambe

Un esempio di vene varicose sulle gambe

Perché si formano?
Negli arti inferiori la circolazione venosa dovrebbe andare dal basso verso l’alto e dalla superficie alla profondità. Dovendo contrastare la forza di gravità, il sistema circolatorio ha sviluppato un motore (i muscoli delle gambe) e un dispositivo di blocco (le valvole venose) che impediscono al sangue di tornare verso il basso. Questo flusso anomalo si chiama reflusso, ed è ciò che si verifica all’interno delle vene varicose.

La presenza di vene varicose indica una situazione di insufficienza venosa.
L’insufficienza venosa è una malattia caratterizzata proprio da cattiva circolazione e ristagno di sangue. Si accompagna a gonfiore, dolore e pesantezza alle gambe, e nei casi più gravi c’è rischio di trombosi.

L’insufficienza venosa, però, non colpisce solo le gambe.
Le varici vulvari, infatti, sono un esempio di come i problemi alle vene possano localizzarsi in altre sedi, in particolare a livello della zona genitale. In questi casi il reflusso può non originare dalla vena safena, come accade nelle varici delle gambe, ma dalle vene pelviche. Più avanti capiremo meglio che funzione hanno queste vene e cosa c’entrano con le varici vulvari.

Varici vulvari: caratteristiche e sintomi

Le varici vulvari sono strettamente correlate alla gravidanza. Infatti, sono presenti in circa il 20% delle donne incinte.

Le varici vulvari compaiono quasi sempre durante una gravidanza

Danno sintomi?
Non sempre, ma possono associarsi a prurito o dolore vulvare, pesantezza e bruciore nella zona perineale e gonfiore delle labbra vulvari a fine giornata.
Questi fastidi causano a volte difficoltà a camminare, dolore durante o dopo i rapporti sessuali (si parla in questo caso di dispareunia), alterazioni mestruali e minzione frequente o dolorosa. Il sintomo più frequente, comunque, è un senso di fastidio nella parte bassa della pancia, che prende il nome di dolore pelvico.

Le varici vulvari possono associarsi a dolore pelvico

Le varici vulvari possono associarsi a dolore pelvico

Sono pericolose?
Come le varici delle gambe, anche le varici vulvari possono complicarsi con trombosi ed embolie. Quindi sì, sono potenzialmente pericolose. Queste complicazioni si manifestano sia in gravidanza che dopo il parto. Tra l’altro, durante la gravidanza il rischio di trombosi è già di per sé aumentato (se vuoi saperne di più sulla trombosi in gravidanza, clicca qui).

Come si sviluppano queste complicanze?
Siccome all’interno delle varici vulvari il sangue ristagna, è più facile che si coaguli provocando un processo di trombosi. Di solito ci si accorge perché compaiono dolore, arrossamento e indurimento della vena colpita. Il rischio è che un frammento di coagulo si stacchi e, seguendo la circolazione del sangue, vada a finire ai polmoni. Questo fenomeno si chiama embolia e può essere pericoloso per la vita.

Infine, ma non per importanza, dobbiamo considerare l’aspetto psicologico. Si capisce facilmente, infatti, come questo problema possa creare disagio e difficoltà relazionali nelle donne affette. Quindi, c’è un ulteriore buon motivo per trattarle.

Varici vulvari: perché si formano?

Le varici vulvari, come le varici delle gambe, sono vene che non funzionano più come dovrebbero. Le cause sono legate a fattori genetici e all’influenza degli ormoni sessuali femminili. Gli ormoni agiscono favorendo la dilatazione delle vene e rallentando il flusso sanguigno.

Se in condizioni normali le vene genitali spingono il sangue dentro l’addome, in presenza di varici vulvari il flusso sanguigno va al contrario e scende in basso. Abbiamo definito questo fenomeno reflusso, e se ci sono varici vulvari molto probabilmente esso origina dalle vene pelviche (anche se a volte parte dalla vena safena).

Le vene pelviche sono vene situate attorno agli organi riproduttivi femminili (vagina, utero e ovaie) nella parte bassa dell’addome. Proviamo a spiegare meglio senza complicare troppo le cose.
Intorno agli organi interni femminili ci sono dei plessi venosi, cioè reti intricate di vene collegate tra loro che portano il sangue verso il cuore.

Le vene che partono dall’utero e dalla vagina confluiscono di solito nella vena iliaca, una grossa vena del bacino che spinge il sangue in alto.

Quelle attorno all’ovaio si raccolgono nella vena ovarica, che si collega con la vena renale a sinistra e con la vena cava (la più grossa vena del corpo) a destra.

Le vene dei genitali esterni femminili (vulva e clitoride) si raccolgono preferenzialmente nella vena pudenda esterna, che a sua volta confluisce nella vena safena all’inguine. Le stesse vene di vulva e clitoride sono collegate anche alla vena pudenda interna, che sbocca nella vena iliaca. A questo proposito, uno studio ha mostrato che in più del 50% dei casi le varici vulvari si associano a un reflusso che parte dalla safena all’inguine, e che passa poi nella vena pudenda.

Disegno schematico degli organi riproduttivi femminili

Sembra difficile?
In effetti lo è, perché tutte queste vene sono collegate tra loro in modo piuttosto contorto. Quello che a noi interessa, però, si riassume in due concetti importanti.

Il primo: le vene genitali e le vene delle gambe sono ampiamente collegate tra loro.

Il secondo: quando si sviluppano varici vulvari, la prima cosa da fare è capire da dove arriva il reflusso del sangue.
Perché? Per intervenire in modo efficace bisogna bloccare il reflusso più in alto possibile. Come capiamo da dove arriva? Facendo un ecodoppler venoso, ma facendolo nel modo corretto (cosa per niente scontata!).

Varici vulvari in gravidanza

Vorrei darti adesso dei numeri per farti capire quanto questo problema è rilevante in gravidanza e quindi quanto è importante che tu lo conosca.
Secondo gli studi più recenti, oltre il 90% delle donne con varici vulvari ha avuto almeno due gravidanze a termine. Nelle donne in gravidanza, tra l’altro, i sintomi associati a varici vulvari sono più forti.

Le varici vulvari compaiono tipicamente dopo 12-24 settimane di gestazione. Di solito iniziano a regredire già dal giorno del parto, per poi ridursi progressivamente fino a scomparire nel giro di 30-40 giorni. Il problema, però, è che possono persistere anche dopo il parto o addirittura ingrossarsi nel 4-8% dei casi. Uno studio mostra che a un anno dal parto il 20% delle pazienti che avevano varici vulvari le manifestano ancora.
Nelle eventuali successive gravidanze le varici vulvari si manifesteranno più precocemente e tenderanno a essere più grosse.

C’è una correlazione anche con l’allattamento. Prima si finisce di allattare, prima scompaiono le varici vulvari. Non c’è da stupirsi di questo dato, perché come abbiamo detto c’è una stretta connessione tra varici vulvari e ormoni. Anche l’allattamento, infatti, è regolato da segnali ormonali.

Le varici vulvari in gravidanza sono spesso presenti assieme alle varici delle gambe.
Secondo i più recenti studi, addirittura nell’87% delle donne con varici vulvari ci sono anche varici degli arti inferiori. All’opposto, il 22-34% delle donne con vene varicose sulle gambe presenta varici vulvari.

Le varici vulvari in gravidanza si associano spesso a varici sulle gambe

In gravidanza le varici vulvari si associano spesso a varici sulle gambe

Perché le varici vulvari si formano proprio durante la gravidanza?

I motivi sono tre.

Il primo è di tipo meccanico.
L’utero di una donna incinta, infatti, comprime le vene della pelvi e delle gambe ostacolando la risalita del sangue. Questo favorisce la dilatazione delle vene situate nella zona genitale.

Il secondo è legato agli ormoni.
Come abbiamo detto, gli ormoni sessuali femminili favoriscono la dilatazione delle vene. Questo ha certamente un senso dal punto di vista biologico, perché l’organismo di una donna in gravidanza deve prepararsi a fornire sangue al feto. Le vene sono un ottimo serbatoio di sangue proprio perché si dilatano facilmente accogliendone una gran quantità. Purtroppo, il rovescio della medaglia è rappresentato dallo sviluppo di vene varicose.

Il terzo fattore è forse un po’ più difficile da capire, perché è legato al flusso del sangue.
Come sai, durante la gravidanza si sviluppa la placenta, un organo che funge da “interfaccia” tra utero e feto. A questo livello le arterie della madre nutrono la placenta stessa e si collegano alle vene del feto. Questa particolare situazione abbassa le resistenze del flusso sanguigno nella madre.
Cosa significa? Se le resistenze circolatorie sono basse, tutte le vene addominali di una donna in gravidanza tenderanno a dilatarsi. Ecco spiegato il perché può svilupparsi facilmente un reflusso nella vena ovarica o nella vena iliaca.

Per quanto riguarda il parto, si potrebbe pensare che il parto vaginale sia più a rischio di emorragie se ci sono varici vulvari. L’alternativa sarebbe il taglio cesareo, ma ci sono altre potenziali complicazioni da tenere presente.
Secondo alcuni studi, la presenza di varici vulvari non è una controindicazione assoluta al parto vaginale. Bisogna naturalmente valutare caso per caso qual è il rapporto tra rischio e beneficio e scegliere la procedura più adatta.

Varici vulvari e varicocele pelvico femminile

Andiamo un po’ più nel dettaglio sulle definizioni. Ci sono, infatti, situazioni cliniche simili tra loro ma che non vanno confuse.

Varicocele pelvico

In alcuni casi le varici vulvari si associano al varicocele pelvico femminile.
Di cosa si tratta? Molto semplicemente, c’è varicocele pelvico femminile quando c’è un reflusso nella vena ovarica. Il reflusso in questa vena è dovuto ad assenza o cattivo funzionamento delle valvole, e di solito si associa a dilatazione della vena stessa (il limite è 5 mm).

Se c’è assenza di valvole, questa si verifica dalla nascita ed è più frequente nel varicocele maschile.
Se invece le valvole funzionano male, quasi sempre sono normali alla nascita e si guastano durante la vita. Questo è tipico del sesso femminile e insorge in gravidanza, che ancora una volta rappresenta un fattore di aggravamento delle patologie venose.

Il varicocele pelvico femminile non necessariamente provoca dei sintomi. Questo vuol dire che si può rilevare all’ecodoppler un reflusso nella vena ovarica senza bisogno di fare alcun trattamento.
Ma facciamo un passettino in avanti.

Insufficienza venosa pelvica

Se al varicocele pelvico femminile si associa il riscontro di vene varicose nella pelvi, allora si parla di insufficienza venosa pelvica.
L’insufficienza venosa pelvica si riscontra più spesso nelle donne che hanno avuto più di una gravidanza, proprio per i fattori che abbiamo visto prima. Le vene pelviche sono naturalmente prive di valvole. Ecco perché si dilatano facilmente proprio in gravidanza.

Le varici vulvari possono associarsi a varici pelviche

Un esempio di vene varicose attorno all’utero

L’insufficienza venosa pelvica può manifestarsi anche in questo caso senza alcun sintomo.
Cosa succede invece se compaiono disturbi? Parliamo in questo caso di sindrome da congestione pelvica femminile.

Sindrome da congestione pelvica

La sindrome da congestione pelvica femminile compare se c’è insufficienza venosa pelvica insieme a dolore pelvico persistente da almeno 6 mesi e a dilatazione delle vene pelviche.
Il dolore pelvico femminile è molto più frequente di quello che potresti pensare. Secondo un recente studio, negli Stati Uniti il 15% delle donne tra 18 e 50 anni ha dolore cronico alla pelvi, cioè al basso ventre. Se in alcuni casi la causa è una malattia specifica (endometriosi, infiammazione pelvica, aderenze post-chirurgiche, patologie dell’utero oppure patologie gastro intestinali/urinarie), nel 60% dei casi non si capisce il motivo di questo dolore.

Si stima che, tra le donne con dolore pelvico, il 30% circa soffra di sindrome da congestione pelvica femminile. La fascia d’età più colpita va dai 20 ai 40 anni, ma la malattia colpisce soprattutto le donne che hanno avuto più gravidanze o che sono in pre-menopausa.

Il dolore di solito è continuo e si localizza nel basso ventre, ma può coinvolgere anche la parte bassa della schiena e la parte alta della coscia. Aumenta in prossimità o durante il ciclo mestruale, ma anche durante i rapporti sessuali. In particolare, è tipico della sindrome da congestione pelvica un prolungato fastidio dopo i rapporti.
Naturalmente i sintomi peggiorano durante la giornata soprattutto se si sta tanto in piedi, mentre migliorano con la posizione distesa.

Come vedi, i problemi di circolazione pelvica e genitale sono diversi, e bisogna conoscerli bene per sapere come approcciarli. Pur essendoci quadri clinici differenti, il problema di base è sempre lo stesso: ormoni e fattori genetici fanno ammalare le vene, il sangue ristagna e possono comparire disturbi.

Varici vulvari: come prevenirle?

Parlando di varici vulvari potresti pensare che la prevenzione non sia poi così importante. Non è infatti possibile evitare l’insorgenza delle varici perché le cause sono difficilmente o per nulla controllabili (ormoni e gravidanze).
Ci sono però dei fattori ambientali e comportamentali sui quali puoi avere il controllo e che possono fare la differenza. Ecco un breve accenno ai più importanti.

Partiamo dal controllo del peso. Sai bene che l’obesità è una malattia che ha effetti negativi sul cuore e la circolazione. Anche le vene ne risentono, e le persone obese fanno più fatica a drenare i liquidi e hanno un aumentato rischio di trombosi.

Un altro fattore importante è l’esercizio fisico. Per prevenire varici vulvari e vene varicose in generale, l’esercizio deve essere focalizzato sull’attivazione delle pompe muscolari (polpaccio e piede). Camminare è l’attività più utile, sollevando bene i talloni e respirando adeguatamente. Anche la respirazione, infatti, aiuta il flusso del sangue verso l’alto attraverso un meccanismo di aspirazione.
Per lo stesso motivo è importante evitare di stare fermi in piedi o seduti per molte ore. Ovviamente molto dipende dall’attività lavorativa, e se passi molto tempo in posizione statica dovresti considerare l’utilizzo di una calza elastica.

Nonostante sia odiata da molte donne, la calza elastica è il miglior modo di prevenire i problemi di insufficienza venosa. Puoi trovare tutte le informazioni che ti servono sulla calza elastica in questo articolo.
Dato che parliamo di varici vulvari, ti sottolineo che può essere più utile il collant perché comprime anche la zona pubica. Un’alternativa altrettanto efficace è la biancheria intima elasticizzata, simile a quella che si usa dopo interventi di addominoplastica.

Varici vulvari: perché e come curarle?

I motivi per cui dovresti curare le varici vulvario sono tre.
Il primo è ridurre i sintomi se sono presenti.
Il secondo è prevenire le complicazioni e tenere sotto controllo la malattia, che per natura tende a peggiorare.
Il terzo è eliminare il disagio estetico e migliorare quindi la qualità della vita.

Purtroppo non ci sono creme o rimedi “fai da te” che possano eliminare le varici vulvari. Devi per forza rivolgerti a uno specialista  (angiologo o flebologo), l’unica figura che è in grado di fare bene l’ecodoppler e capire come trattare il problema.
Attenzione però, perché anche tra gli specialisti vascolari scarseggiano quelli che hanno esperienza su questa problematica. Purtroppo, infatti, noterai che l’approccio ai problemi di vene spesso è invasivo e poco moderno, e sembra che molti medici addirittura non conoscano l’esistenza delle varici vulvari.

Per quanto riguarda il come curarle, la terapia può essere conservativa oppure può prevedere trattamenti mini-invasivi come scleroterapia, flebectomie e procedure di embolizzazione. Le due terapie non si escludono a vicenda, come vedremo fra poco.

Terapia conservativa

Si tratta di una terapia medica basata sull’utilizzo di flebotonici.
I flebotonici sono sostanze provenienti da mondo vegetale, quindi del tutto naturali, che hanno diverse proprietà benefiche sulle vene. Si assumono sotto forma di integratori (compresse o bustine), generalmente a cicli e in particolare durante la stagione estiva.

I flebotonici possono essere assunti sotto forma di integratori

Numerosi studi mostrano l’efficacia dei flebotonici nel ridurre i sintomi legati ai problemi di vene (dolore, pesantezza, bruciore). C’è anche un  miglioramento della qualità di vita nelle pazienti con insufficienza venosa.
Poiché agiscono aumentando la forza di spinta delle vene, essi sono in grado di migliorare la circolazione del sangue e aumentare il drenaggio dei liquidi. Ciò si traduce poi in un miglioramento dei disturbi.

Ma quali sono i diversi flebotonici e quale può essere il più indicato nel mio caso?
Se ti stai facendo questa domanda, ti invito a leggere altri due articoli dove ho spiegato nel dettaglio le differenze tra i flebotonici e in quali casi sono indicati. Li trovi qui e qui.

Parlando nello specifico di varici vulvari, è importante sottolineare alcune cose importanti.

Primo: i flebotonici sono veramente utili? Si, ci sono studi che lo dimostrano. Ovviamente non fanno sparire le varici, perché la loro azione si limita a ridurre i fastidi. Servono anche come aiuto in associazione alle terapie mini-invasive che vedremo tra poco, perché migliorano il risultato finale.

Secondo: si possono assumere in gravidanza?
Questa domanda è importante per i motivi che sappiamo. Generalmente troverai scritto nei bugiardini che l’uso in gravidanza e in allattamento non è sufficientemente testato, quindi sconsigliato. Ci sono però studi recenti che hanno mostrato la sicurezza di alcune sostanze flebotoniche in gravidanza. Ovviamente è opportuno che sia lo specialista a prescrivere quello più adatto.

Scleroterapia

La scleroterapia consiste nell’iniettare dentro una vena una sostanza farmacologicamente attiva, con lo scopo di chiuderla o quanto meno restringerla. Ciò avviene attraverso un processo di infiammazione. Si tratta di una terapia molto conosciuta per i capillari, ma che va bene anche per le vene più grosse. In questi casi si utilizza l’ecodoppler come “guida” (si chiama scleroterapia eco-guidata).

La scleroterapia è molto utile nel trattamento delle varici vulvari perché è minimamente invasiva (si effettua solo una puntura) e si può fare in ambulatorio, tornando subito alle proprie attività senza limitazioni. Inoltre, al contrario di quello che potrebbe sembrare, la puntura non è dolorosa.

Ma quando è indicata?
Abbiamo detto che prima di tutto bisogna capire da dove parte il reflusso. Questa informazione si ottiene con l’ecodoppler, attraverso il quale dobbiamo identificare i cosiddetti punti di fuga.

I punti di fuga

Cosa sono? Si tratta di punti ben precisi nella zona perineale e genitale. Nei punti di fuga le vene pelviche non funzionanti si collegano alle vene superficiali, generando quindi le varici vulvari. Proprio a livello dei punti di fuga bisogna iniettare lo sclerosante.
Per non complicare le cose, non entriamo nei dettagli anatomici. Vediamo però dove si trovano i tre punti di fuga più comuni che sono coinvolti nello sviluppo di varici vulvari. Naturalmente sono presenti sia sul lato destro che su quello sinistro.

Il Punto I (punto inguinale) si trova all’altezza dell’inguine, sulla linea che collega il pube alla spina iliaca.
Alla base del clitoride c’è il Punto C (punto clitorideo).
Nella zona perineale si localizza il Punto P (punto perineale), tra il labbro vulvare e la parte interna del gluteo.

Scleroterapia eco-guidata

Come funziona la scleroterapia eco-guidata?
Con la sonda ecografica si individua la vena bersaglio e si può seguire il decorso dell’ago quando facciamo la puntura. Basterà prendere la mira, verificare di essere entrati nella vena e iniettare lo sclerosante sotto forma di schiuma.

L’iniezione è dolorosa?
Si può avvertire un minimo bruciore che passa dopo poco tempo. L’effetto immediato dello sclerosante è uno spasmo della vena, cioè una sua contrazione. Il farmaco viene eliminato dopo 10 minuti circa, ma questo tempo è sufficiente perché abbia inizio il processo infiammatorio che porterà poi al risultato.

Quando è indicata la scleroterapia?
Secondo Claude Franceschi, uno dei più importanti studiosi delle vene, ci si può limitare alla scleroterapia dei punti di fuga quando non ci sono sintomi importanti. Quindi, si può fare anche se c’è reflusso nelle vene pelviche, ma non se c’è una sindrome da congestione pelvica.

Naturalmente c’è chi la pensa in modo diverso. Secondo altri studi, infatti, la scleroterapia si può fare solo in assenza di reflussi nelle vene pelviche e se il diametro delle varici è al massimo 5-6 mm.

Personalmente sono maggiormente d’accordo con la prima ipotesi. A causa di un reflusso pelvico, infatti, le varici vulvari potrebbero anche riformarsi, ma la scleroterapia è facilmente ripetibile. Un altro vantaggio è che si evitano procedure più invasive (le vedremo tra poco).

Quando le varici vulvari sono particolarmente grosse, può essere opportuno toglierle con una flebectomia. La flebectomia consiste nell’asportazione della vena varicosa. Si effettua in anestesia locale e con una tecnica mini-invasiva. Non è necessario fare incisioni né mettere punti di sutura, perché basta praticare un piccolo foro con un ago e inserire un uncino che aggancia la vena e la toglie.

Embolizzazione

Cosa significa questa parola difficile?
L’embolizzazione è una procedura che consiste semplicemente nel chiudere una vena con tappo. Tecnicamente il tappo è un dispositivo metallico fatto a forma di spirale.

L’embolizzazione è diversa dalla scleroterapia per due principali ragioni.
La prima: l’embolizzazione si fa nelle vene pelviche, quindi dentro l’addome. Lì la scleroterapia eco-guidata non può arrivare.
La seconda: si tratta di una procedura più invasiva. Il motivo è che bisogna inserire dei cateteri nelle vene profonde all’inguine, farli risalire fino alla vena bersaglio dentro la pelvi e lì rilasciare il tappo. Il tutto si effettua con l’iniezione di mezzo di contrasto, quindi in ospedale e in regime di ricovero.

Un disegno schematico di come funziona l’embolizzazione

Quando si fa l’embolizzazione?
Secondo la maggior parte degli studi, l’embolizzazione va fatta in presenza di reflusso nella vena ovarica associato a sindrome da congestione pelvica. Quindi in presenza di sintomi importanti. Anche qui, se le varici vulvari sono particolarmente grosse (diametro superiore a 5-6 mm) si può effettuare una contestuale flebectomia.

Consigli pratici

Penso che la cosa più importante sia rivolgersi allo specialista giusto. Il problema è che quasi sempre le pazienti vagano facendo un ecodoppler dopo l’altro, senza che qualcuno dia un’indicazione pratica. Non serve a niente che il medico documenti che ci sono varici vulvari se poi non si fa carico del problema e lo sa trattare. Peggio ancora se fai l’ecodoppler a pagamento, perchè ci spendi anche dei soldi senza risolvere nulla.

C’è anche un altro aspetto. Nella gran parte dei casi, gli ospedali e le case di cura non hanno specialisti che trattano questi problemi. Ovviamente dipende dalla singola realtà territoriale, ma queste patologie non hanno mai goduto di tanta considerazione soprattutto tra i chirurghi vascolari. Ti consiglio quindi di cercare lo specialista giusto e affidarti a lui sia per l’esame diagnostico che per il trattamento.

L’altra consiglio che ti voglio dare è di non trascurarti. Non ascoltare gli innumerevoli luoghi comuni sulle varici (non trattarle se non ti danno fastidio, curarle non serve perché tanto si riformano). Spesso sono proprio i medici di base ad alimentare queste dicerie perché probabilmente sono rimasti fermi a 50 anni fa. Oggi la mentalità dovrebbe essere più moderna e basata su prevenzione e trattamenti meno invasivi possibile. Andrebbe data anche più importanza a come le donne vivono questa patologia, evitando di liquidare la paziente dicendo “tienitele”.

Le varici vulvari non possono essere considerate solo un problema estetico. C’è anche e soprattutto un problema funzionale di circolazione e ci sono possibili complicazioni. Credo che questo sia sufficiente a sottolineare l’importanza di trattarle.

Fonti

Pier Antonio Bacci. CELLULITI 2012 – Diagnosi e terapia della FEF (fibroedematosi evolutiva fermminile). OEO 2012

C. Franceschi, P Zamboni. Principles of venous haemodynamics. Nova Science Publishers 2009.

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5500487/pdf/ijwh-9-463.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC9158414/pdf/10.1177_03000605221097764.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3835435/pdf/10-1055-s-0033-1359731.pdf

 

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Ci sono tre rimedi efficaci per trattare i capillari rotti sulle gambe

Capillari rotti: come ottenere risultati con i trattamenti?

Capillari rotti sulle gambe: 3 rimedi per eliminarli efficacemente

 

Eliminare i capillari “rotti” sulle gambe è un target molto richiesto perché questi inestetismi provocano notevole disagio nelle donne. I trattamenti per eliminarli sono apparentemente banali, ma in realtà presentano delle criticità. Nella mia esperienza, infatti, ho notato che la maggior parte delle pazienti presenta due caratteristiche comuni.

La prima: molti trattamenti fatti in passato senza ottenere risultati, o addirittura peggiorando la situazione.

La seconda: tante convinzioni errate derivanti da luoghi comuni, come ad esempio: trattare i capillari “rotti” non serve a niente, perché tanto ritornano. Oppure: le vene varicose è meglio non toglierle finché non hai disturbi.
La conclusione generale è che bisogna rassegnarsi al disagio perché i trattamenti non funzionano.

Se stai leggendo questo articolo è probabile che tu abbia avuto un’esperienza simile. Per fortuna, però, le cose non stanno così. I trattamenti hanno una comprovata efficacia, certo con un margine molto basso di complicazioni come ogni terapia medica. Ci sono tuttavia degli aspetti che fanno la differenza e che ho cercato di sintetizzare in questo articolo.

Ecco quindi 3 rimedi efficaci per trattare i capillari “rotti” sulle gambe. Prima, però, una breve introduzione per capire meglio di cosa stiamo parlando.

Capillari rotti sulle gambe: cosa sono e perché si formano

I capillari “rotti” sulle gambe indicano una situazione di insufficienza venosa. Si tratta di una patologia molto diffusa nella quale le vene perdono la capacità di drenare il sangue. Secondo la principale classificazione di questa malattia, la comparsa dei capillari indica il primo stadio.

Ma i capillari sono davvero “rotti”?
In realtà no, sono semplicemente dilatati e per questo diventano visibili. Nel linguaggio comune vengono definiti “rotti” perché spesso si manifestano abbastanza rapidamente (nella stagione calda o dopo una gravidanza) o perché assumono l’aspetto di un livido.

La scleroterapia dei capillari permette di migliorare l'aspetto delle gambe

Un esempio di capillari “rotti” sulla coscia

Le cause che portano alla “rottura” dei capillari sono molteplici.
Le più importanti sono la familiarità e l’azione degli ormoni sessuali femminili, quindi fattori non modificabili. Infatti, è abbastanza tipico che i capillari si “rompano” in situazioni di cambiamento ormonale come la gravidanza e la menopausa. Anche alcune terapie come pillola anticoncezionale e fecondazione assistita possono influire.

Ma perché c’entrano gli ormoni?
Riducendo il tono venoso e capillare, gli ormoni sessuali femminili favoriscono il ristagno del sangue e dei liquidi nei tessuti. Per questo si associano spesso anche a gonfiore e ritenzione.

Ci sono anche dei fattori ambientali e comportamentali che incidono sulla comparsa dei capillari. Ad esempio, pomate al cortisone, massaggi intensi, mesoterapia non corretta, ma anche obesità, immobilità in piedi per molte ore (alcune attività lavorative come bariste, parrucchiere e addette alle pulizie sono particolarmente a rischio), eccesso di calore (saune, lampade), vestiti troppo stretti e cerette troppo traumatiche.
Come vedremo più avanti, è proprio su questi fattori modificabili che puoi intervenire per migliorare l’aspetto delle gambe.

Capillari rotti sulle gambe: perché dovresti trattarli?

Poiché sono una condizione cronica e degenerativa, i capillari tendono col tempo a peggiorare. D’altra parte hanno una forte componente genetica quindi non si possono eliminare alla radice.

Ma allora perché dovresti curarli?
Come abbiamo visto, si sentono tanti luoghi comuni su questa patologia e si potrebbe erroneamente concludere che trattarli sia inutile. Vedremo perché si tratta di una convinzione sbagliata.

Ora però rispondiamo alla domanda.
Essendo una patologia degenerativa, a maggior ragione dovresti tenerla sotto controllo. Non facendo trattamenti periodici, infatti, la situazione peggiorerà sicuramente più di quanto accadrebbe se te ne prendessi cura regolarmente.
E se la situazione peggiora cosa succede? Possono esserci tre tipi di problemi: uno estetico, uno funzionale e uno sintomatologico.

Da un punto di vista estetico questa patologia è molto impattante. Secondo alcuni studi, infatti, la presenza di capillari “rotti” sulle gambe rappresenta per le donne un disagio addirittura superiore a quello provocato dalle rughe del viso.
L’impatto psicologico è rilevante, le donne si sentono in imbarazzo nello scoprire le gambe e ricorrono ai pantaloni lunghi anche d’estate. Le pazienti più giovani possono manifestare addirittura quadri depressivi.

La presenza di capillari rotti provoca disagio nello scoprire le gambe

Ecco un esempio di come i capillari provocano disagio nell’indossare vestiti corti

Da un punto di vista funzionale, più questi capillari si dilatano e aumentano la loro estensione, più il sistema circolatorio superficiale si sovraccarica.
E quindi cosa succede? I capillari si trovano nel derma, subito sotto l’epidermide, e sono collegati con le vene sottocutanee che a loro volta confluiscono nelle safene. Questo significa che la dilatazione dei capillari può favorire un’evoluzione verso forme di insufficienza venosa più gravi.
Inoltre, il sistema venoso contribuisce alla termoregolazione del corpo. Se i capillari si dilatano allora il sangue non scorre come dovrebbe, con conseguenti problemi distrettuali della termoregolazione.

Trattare i capillari è utile anche perché possono provocare disturbi. Alcune pazienti, infatti, lamentano prurito, senso di calore o bruciore, formicolii e altri fastidi proprio nelle aree dove si “rompono” i capillari. Questo succede soprattutto in alcune fasi del ciclo mestruale a causa dei picchi ormonali. In questi casi il trattamento elimina solitamente i disturbi.

Capillari rotti sulle gambe: rimedi per eliminarli efficacemente

Quasi tutte le donne in età adulta hanno effettuato qualche trattamento per eliminare i capillari. Come abbiamo detto, però, spesso non si ottengono i risultati sperati e ci si demoralizza. Atre volte per la disperazione si ricorre a creme “miracolose” che purtroppo si rivelano un bluff.

Ma perché accade questo?
Non certo perché i trattamenti non funzionano. Se correttamente indicati, laser e scleroterapia sono infatti molto efficaci e non servono poi tante sedute per vedere un buon risultato.
Il problema, nella mia esperienza, è un altro. Poiché diversi medici effettuano questi trattamenti pur non essendo del settore, l’approccio è generalmente molto variabile o in qualche caso addirittura improvvisato. Questo può portare a risultati non buoni.

C’è bisogno, quindi, di fare chiarezza su cosa realmente funziona. Ecco quindi tre punti e rimedi secondo me utili che fanno la differenza.

1 Prevenzione

La prevenzione consente di agire sui fattori modificabili, cioè i fattori ambientali e lo stile di vita. Si tratta dell’unica arma che hai a disposizione per ridurre la possibilità che compaiano i capillari. Vediamone gli aspetti più importanti.

Dieta e controllo del peso

L’obesità è un fattore che aggrava l’insufficienza venosa. Se il tessuto adiposo delle gambe aumenta, il sistema venoso e linfatico faranno più fatica a drenare il sangue e i liquidi. Oltre a una aumentata comparsa di capillari, è facile che le gambe si gonfino e facciano male.

Oltretutto, una persona obesa si muove con più difficoltà ed è meno propensa a camminare. Come vedremo dopo, camminare è la base per far circolare bene il sangue. Per questo in presenza di obesità si crea un circolo vizioso che aggrava la situazione.

Per i motivi che abbiamo visto è molto importante controllare il peso e mantenerlo nel range di normalità per la propria costituzione. Ma che cosa puoi fare?
Ci sarebbe molto da scrivere su un argomento vasto come la nutrizione, quindi vediamo le cose più importanti.

Un primo consiglio apparentemente banale ma utile è di evitare l’assunzione di zuccheri raffinati e cibi iper-calorici. Gli zuccheri, infatti, si attaccano alle cellule adipose provocando un fenomeno chiamato lipodistrofia.
Cosa significa? Si tratta di una degenerazione delle cellule adipose caratterizzata da infiammazione e richiamo di liquidi, quindi sofferenza circolatoria.

Il fenomeno della lipodistrofia si collega anche a quello che accade nella cellulite, altra condizione che si associa spesso ai capillari “rotti”.
La cellulite è una malattia infiammatoria e degenerativa dei tessuti che provoca, tra l’altro, inestetismi cutanei sotto forma di “buchi” e “avvallamenti”. Essa può contribuire alla “rottura” dei capillari in zone abbastanza tipiche, come la parte esterna della coscia e l’interno del ginocchio.

Perché i capillari si “rompono” dove c’è la cellulite?
Se osserviamo da vicino queste zone, vedremo che i capillari tendono ad assumere l’aspetto di una raggiera o di un semicerchio, con al centro una piccola vena bluastra che scende. Questa forma indica che la dilatazione dei capillari avviene perché il sangue fa fatica a defluire.
La cellulite, infatti, provoca asfissia nelle cellule adipose, che andando in sofferenza si deformano e provocano un impedimento alla circolazione. I capillari a quel punto si dilatano e diventano visibili.

 

Sulla coscia i capillari assumono spesso l'aspetto di un albero

All’altezza della coscia i capillari formano spesso un semicerchio con una vena bluastra che scende, assumendo la forma di un albero

In queste zone è molto importante che i capillari vengano trattati in maniera delicata e graduale, senza utilizzare terapie troppo aggressive. Poiché la circolazione è ostacolata, bisogna dare il tempo al sistema di adattarsi e trovare altre vie di scarico, altrimenti si formeranno immediatamente nuovi capillari particolarmente rossi e sottili che prendono il nome di matting.

Esercizio fisico

L’esercizio fisico è un altro fattore importante per la circolazione e rappresenta un’ottima abitudine preventiva per contrastare i capillari.

Perché l’esercizio aiuta la circolazione?
Le vene che raccolgono il sangue dalle gambe devono spingerlo contro gravità verso il cuore, quindi hanno bisogno di un motore. Questa spinta è prodotta dalle pompe muscolari, strutture muscolari e tendinee delle gambe che funzionano come propulsori proprio perché, con la loro contrazione, spremono le vene favorendo il flusso del sangue.

Le pompe muscolari si trovano a livello del polpaccio e sulla pianta del piede, oltre che nel torace (in questa sede, grazie alla respirazione, ci crea una pressione negativa che “aspira” il sangue verso l’alto).

Ma che tipo di esercizio è meglio fare per evitare la comparsa dei capillari?
Sicuramente camminare è la cosa più utile, perché attiva tutte e tre le pompe (pianta del piede, polpaccio e torace). Bisogna al contempo respirare profondamente e concentrarsi nel sollevare bene i talloni, in modo che la spremitura delle vene sia ottimale.

Un altro esercizio molto utile è il nuoto, così come tutti gli sport acquatici (acquagym, idrobike, ecc). In acqua, infatti, l’azione della forza di gravità sul sangue è attutita e le vene fanno meno fatica a lavorare. Allo stesso tempo si può effettuare un esercizio muscolare, aiutando ancora di più il sistema. Avendo l’acqua una temperatura più bassa, infine, c’è un ulteriore aiuto alla circolazione.

Calza elastica

Nonostante sia odiata da molte donne, la calza elastica è un ottimo strumento per prevenire la “rottura” dei capillari. Si tratta di un presidio terapeutico che esercita una pressione esterna sulle gambe, aiutando in questo modo la circolazione.

Molti studi mostrano che la calza elastica riduce i sintomi e migliora la qualità di vita delle donne con insufficienza venosa. Anche dopo la scleroterapia dei capillari, indossare una calza di almeno 18 mmHg determina un migliore risultato a distanza, se portata per 3 settimane.
La calza elastica andrebbe indossata soprattutto dalle persone più a rischio di sviluppare capillari e vene varicose, cioè chi lavora molte ore in piedi oppure vicino a fonti di calore.

Ma perché risulta così fastidiosa?
In alcune donne il senso di compressione o costrizione e la sudorazione eccessiva rendono la calza difficile da indossare. Altre pensano che le autoreggenti o i gambaletti blocchino la circolazione, quindi non li mettono. In estate, poi, quando sarebbe maggiormente necessaria, nessuna la indossa perché non risulterebbe adeguata all’abbigliamento (sandali e vestiti corti).

Tutto comprensibile e giustificato, ma devi cercare di dare spazio anche alla prevenzione! Ad esempio, se lavori in ambiente fresco o con una divisa, puoi tranquillamente indossare un gambaletto o una autoreggente. In questo modo aiuterai la circolazione nei momenti critici e sentirai alla sera un senso di sollievo. Se hai bisogno di un outfit per stare all’esterno, potrai stare senza calza per il tempo che ti serve.

Spesso i fastidi della calza elastica derivano anche da una prescrizione non corretta. Sono pochi, infatti, i medici che prescrivono la calza prendendo le misure e scegliendo i materiali più adatti. Se questa prassi non viene seguita, la sanitaria vende ciò che ha ma che magari non va bene.

2 Rivolgiti a uno specialista

Spesso non si ottengono buoni risultati nel trattamento dei capillari “rotti” perché manca una valutazione specialistica. Un cattivo risultato, infatti, deriva in molti casi da una diagnosi non corretta.

Ma come si fa a fare una diagnosi corretta? Bisogna prima di tutto fare un ecodoppler venoso, e bisogna saperlo fare bene (cosa non scontata). L’ecodoppler consente di studiare come funziona la circolazione e capire se i capillari sono alimentati da vasi più profondi.
Ma quindi i capillari non sono tutti uguali? No. I capillari della coscia (sopra il ginocchio) sono solitamente diversi da quelli della gamba (sotto il ginocchio).

Nella coscia abbiamo già visto che i capillari “rotti” si formano per un ostacolo alla circolazione.
Sotto il ginocchio, invece, molto spesso ci sono una o più vene non funzionanti che ne provocano la comparsa. Identificare queste vene con l’ecodoppler è fondamentale, perché se non le trattiamo per prime i capillari si riformeranno o addirittura peggioreranno a seguito dei trattamenti.

I capillari sotto il ginocchio assumono spesso l'aspetto di un albero rovesciato

Sotto il ginocchio i capillari “rotti” assumono spesso l’aspetto di un albero rovesciato

Per fare un esempio, non ha alcun senso trattare quelle macchie di capillari che ci sono sulla caviglia se sotto c’è una grossa vena che non funziona. In queste situazioni il sangue presenta un reflusso, cioè scende verso il basso e ristagna anziché andare verso l’alto. Proprio perché scende in basso per gravità, il sangue deve trovare delle vie di scarico e i capillari compaiono per questo.
Bisogna quindi trattare prima di tutto la grossa vena che non funziona e poi rifinire con il trattamento dei capillari. Eppure, mi è capitato spesso di vedere trattare le caviglie in pazienti con questo problema, ovviamente senza fare l’ecodoppler.

Un altro fattore importante è che un medico non specialista difficilmente potrà padroneggiare tutte le tecniche che ci sono a disposizione, scegliendo quindi la più adatta. Ad esempio, ci sono tanti medici estetici o addirittura medici di base che fanno solo la scleroterapia, oppure comprano il laser e lo fanno a tutti indistintamente.

Questo approccio non va bene perché ogni trattamento ha una specifica indicazione. A volte, poi, per ottenere un buon risultato è necessario un piccolo intervento. Si capisce quindi che una puntura non può sostituire un’altra tecnica che sarebbe in quel caso maggiormente indicata, e il risultato di conseguenza non sarà buono.

Lo specialista, invece, è in grado di riconoscere per primo il problema più importante e di trattarlo nel miglior modo (chirurgia, laser, colla o scleroterapia).

3 Trattamenti efficaci

Il terzo rimedio che ti suggerisco per eliminare i capillari “rotti” è di effettuare terapie di comprovata efficacia.
Sappiamo che i trattamenti principali sono la scleroterapia e il laser. Ce ne sono anche altri come ossigeno-ozono, carbossiterapia e diatermo-coagulazione, ma si usano meno frequentemente.

Quello che fa la differenza, però, è come vengono fatti.
Vediamoli un po’ più nel dettaglio.

Scleroterapia

La scleroterapia consiste nell’iniettare all’interno dei capillari “rotti” una sostanza che li chiude e li fa scomparire gradualmente.
I farmaci da utilizzare dovrebbero essere tra quelli approvati per la scleroterapia dalla farmacopea italiana. Eppure, capita di sentir parlare di scleroterapia con prodotti omeopatici oppure rinforzanti. Un esempio è la terapia TRAP, che da alcuni anni si propone come alternativa alla scleroterapia tradizionale.

Ma che cos’è la TRAP e come funziona realmente?
La TRAP non è altro che una scleroterapia a bassissime concentrazioni di farmaco, nella quale si utilizza una sostanza non annoverata come sclerosante nella farmacopea italiana. Viene proposta come terapia “rigenerativa” (il messaggio è che le altre terapie distruggono i capillari, la TRAP invece li rinforza) e per questo sembra molto accattivante.

Tuttavia, non c’è alcuno studio che dimostri questo effetto.
Essendo come una scleroterapia, l’iniezione della TRAP provoca una blanda infiammazione nel capillare e di conseguenza un modesto accartocciamento della sua parete. Questo può certamente determinare una minore visibilità dei capillari, mentre nelle vene più grosse l’effetto è molto più leggero e comunque non duraturo.

In ogni caso, non si tratta di “rinforzo” (il termine è fuorviante) ma di leggera infiammazione. Il principio di fondo della TRAP rimane dunque non corretto, perché si basa sul trattare indistintamente vene e capillari senza studiare da dove parte il reflusso.

Laser

Il laser non dovrebbe essere considerato un’alternativa alla scleroterapia (e viceversa). Spesso, però, c’è la convinzione che i due trattamenti siano intercambiabili e le pazienti vogliono “provare” il laser perché la scleroterapia non è andata bene.

Si tratta di un approccio sbagliato perché laser e scleroterapia hanno indicazioni specifiche. Se la scleroterapia non è andata bene, i motivi possono essere tanti (non è stato identificato un reflusso, concentrazione del farmaco non corretta, oppure la puntura ha interrotto una via di scarico).

E allora quando va usato il laser?
In linea generale, se i capillari sono molto piccoli (diametro inferiore a 0,5 mm) il laser è la soluzione migliore. Naturalmente bisogna essere sicuri che non ci siano vene sottostanti più grosse che li alimentano.

Se la dimensione è compresa tra 0,5 e 1 mm, sia la scleroterapia che il laser possono andare bene, in base all’esperienza e alla preferenza del medico. Naturalmente sarà più opportuno ricorrere al laser nelle pazienti allergiche allo sclerosante o fortemente spaventate dagli aghi. La scleroterapia, d’altra parte, sarebbe da preferire in zone particolarmente delicate come la parte esterna della coscia.

Anche il tipo di laser va considerato, a seconda di alcuni parametri del capillare come profondità, dimensione e colore.
Il NeodimioYAG è un laser che va molto bene per i capillari più grossi che hanno un colore blu-violaceo. Il motivo è che questi capillari sono un po’ più profondi e il laser a Neodimio ha la caratteristica di penetrare maggiormente. Anche il Diodo può andare bene, sebbene abbia una penetrazione leggermente inferiore.

Se i capillari “rotti” sono rossi e sottili, allora significa che sono più superficiali. In questi casi il laser più adatto è il KTP 532. Questo laser penetra di meno rispetto agli altri e ha un’alta affinità per i capillari, quindi va molto bene. Bisogna stare attenti però alla pelle, perché avendo affinità anche per la melanina potrebbe provocare perdita di pigmentazione.

Quando i capillari sono superiori al millimetro allora si parla di vene reticolari. La prima scelta in questo caso è la scleroterapia, ma il loro trattamento viene molto bene anche con il laser endo-perivenoso.
Questa particolare tecnica laser prevede l’introduzione di una sottile fibra sotto la cute, in anestesia locale, con il vantaggio di ovviare il problema della penetrazione. Poiché la fibra si avvicina di più alla vena, infatti, il laser potrà colpire il bersaglio molto efficacemente e senza danneggiare la pelle.

Conclusioni

Purtroppo non esiste un rimedio che faccia sparire i capillari in modo rapido, definitivo e senza possibili complicazioni. Come hai potuto leggere, le terapie sono efficaci ma sono piene di insidie.

Spesso le pazienti mi chiedono se qualcosa è cambiato rispetto al passato e se ci sono cure più efficaci. Quello che è cambiato è certamente l’approccio, che è diventato (o almeno dovrebbe esserlo) meno aggressivo e più confortevole per il paziente. Purtroppo però la cura innovativa che renda tutto più facile non esiste. Per questo credo che sia importante soffermarsi sui concetti che hai letto in questo articolo.

Penso anche che ci sia bisogno di maggiore cultura e consapevolezza su queste patologie. Noi medici per primi dobbiamo abbandonare la vecchia mentalità fatta di luoghi comuni, prepararci di più e specializzarci in queste problematiche con un approccio il più scientifico possibile.

Anche tu come paziente puoi consapevolizzarti di più ed essere cosi più preparata nella scelta del medico e nell’affrontare i trattamenti.
I rimedi più efficaci che ho voluto spiegarti non riguardano quindi una tecnica di trattamento speciale, ma piuttosto un insieme di fattori che sono utilissimi alleati per ottenere un buon risultato.

Fonti

Pier Antonio Bacci, Celluliti 2012-diagnosi e terapia della FEF, Officina editoriale oltrarno, FI

Ovidio Marangoni, Leonardo Longo, Lasers in Phlebology, Edizioni Goliardiche

Alessandro Frullini, Manuale di flebologia ambulatoriale, Officina editoriale Oltrarno, FI

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5846867/pdf/10.1177_0268355516689631.pdf

 

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Leggi anche Vene visibili sulle gambe: cosa sono e come si eliminano efficacemente e Capillari sulle gambe: scleroterapia o laser?

 

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Gambe grosse e doloranti possono indicare la presenza di lipedema

Gambe grosse e doloranti: quando sospettare una patologia?

Alcune donne hanno il problema delle gambe grosse, doloranti e sproporzionate rispetto alla parte alta del corpo. Spesso è un fatto costituzionale, e si “ereditano” le gambe grosse dalla mamma o dalla zia. Altre volte si tratta di gonfiore che compare più o meno improvvisamente.
Stiamo parlando quindi di un problema generico ed è importante capire che patologie possono esserci alla base.

Di solito la presenza di gambe grosse e gonfie fa pensare subito a un problema di circolazione. Anche qui, però, bisogna differenziare le possibili cause. Saranno le vene oppure è ritenzione? Ci sono liquidi in eccesso o si tratta di tessuto adiposo?

Come vedi, non è facile capire quando la situazione è patologica. Molte donne, pensando che il problema sia irrisolvibile, si limitano a nasconderlo cercando idee su come vestirsi per far sembrare le gambe più snelle (Figura 1). Questo è certamente utile, ma capire se c’è una patologia sottostante lo è ancora di più perché consente di iniziare una cura.

Un esempio di gambe grosse

Figura 1. Un esempio di gambe grosse

In questo articolo vorrei concentrami su una malattia molto importante che può provocare un ingrossamento delle gambe: il lipedema.
Non sempre facile da riconoscere, il lipedema è piuttosto frequente ma poco conosciuto anche tra i medici. La conseguenza è una diagnosi spesso tardiva quando il problema è diventato irreversibile.

L’obiettivo che mi sono posto con questo articolo è sensibilizzare il più possibile su questa malattia, dandoti tutte le informazioni necessarie per saperne di più e per risolvere il problema.
Parlando di lipedema dovrò inevitabilmente darti delle informazioni anche sul linfedema, una malattia per certi versi simile ma per altri diversa di cui ti parlerò meglio nel prossimo articolo.

Gambe grosse e doloranti: di cosa si tratta?

Quando parliamo di gambe grosse, doloranti oppure gonfie abbiamo a che fare con alterazioni che interessano tre organi: il tessuto connettivo, il tessuto adiposo e il sistema linfatico.

Cosa sono queste strutture?

Vediamole nello specifico.

Tessuto connettivo

Il tessuto connettivo si trova sotto la cute e ha un ruolo principalmente di sostegno e protezione. Come tutti i tessuti, è composto da cellule e tessuto extracellulare.

Le cellule del tessuto connettivo sono i fibroblasti. Essi hanno il compito di produrre tutte le sostanze strutturali del tessuto stesso, mantenendolo quindi ben funzionante. Naturalmente nel tessuto connettivo ci sono anche altre cellule, come quelle immunitarie.

Il tessuto extracellulare è l’insieme di tutte le sostanze che si trovano tra una cellula e l’altra. La sua definizione corretta è matrice extracellulare, ed è un sistema molto complesso nel quale queste molecole comunicano con le cellule e ne regolano l’attività (Figura 2).

Nel lipedema i liquidi si accumulano nella matrice extracellulare

Figura 2. Le “palle” sono le cellule e la matrice extracellulare è il gel azzurro nel quale “galleggiano”

La matrice extracellulare ha due componenti: la sostanza fondamentale e le fibre.
La sostanza fondamentale è un gel ricco di acqua, all’interno del quale “galleggiano” le grosse molecole strutturali della matrice. I glicosaminoglicani e proteoglicani ne sono un esempio, e grazie alle loro cariche elettriche richiamano proprio il sodio e l’acqua idratando la matrice. Una sostanza molto conosciuta che appartiene al gruppo dei glicosaminoglicani è l’acido ialuronico.

Le fibre possono essere elastiche o collagene. Le fibre elastiche conferiscono elasticità e capacità di attutire i traumi, le fibre collagene invece costituiscono l’impalcatura di sostegno del tessuto connettivo.

Linfedema e lipedema sono caratterizzate proprio da un eccesso di liquidi nella matrice extracellulare. Quando questo accade, le cellule vengono stimolate a produrre più proteoglicani, che aumentano ulteriormente l’accumulo di acqua. A un certo punto, però, questo eccesso di liquidi compromette l’ossigenazione delle cellule, che a loro volta attivano una risposta infiammatoria.
L’infiammazione è alla base dei danni provocati da queste malattie a livello dei tessuti.

Tessuto adiposo

Il tessuto adiposo è presente in tutto il nostro corpo. Si trova più in profondità rispetto al connettivo, vicino al piano muscolare.

Anche il tessuto adiposo è fatto di cellule e matrice extracellulare.
Le cellule si chiamano adipociti, e la loro funzione principale è di accumulare lipidi, cioè grassi, con lo scopo di riserva energetica. In caso di bisogno, alcuni stimoli ormonali inducono la scissione dei lipidi in acidi grassi, che possono essere bruciati per produrre energia.

Un’altra funzione del tessuto adiposo è di tipo meccanico. Infatti, ci protegge dai traumi e isola il corpo dal caldo e dal freddo presenti all’esterno.

Si è capito recentemente che il tessuto adiposo è anche un importante organo endocrino, cioè che produce ormoni. Infatti, comunica con gli altri organi attraverso segnali molecolari e contribuisce al metabolismo dell’organismo.

E la matrice extracellulare come è organizzata?

Le cellule adipose sono ammassate tra di loro formando delle strutture chiamate lobuli. I lobuli sono come le celle di un alveare, e sono separate tra loro da alcuni tralci di tessuto connettivo, chiamati setti (Figura 3).

Il tessuto adiposo è composto da lobuli e setti

Figura 3. Le cellule adipose sono ammassate in lobuli, separati da setti

All’interno dei setti ci sono i vasi sanguigni e linfatici. Mentre i primi portano ossigeno alle cellule adipose, i secondi raccolgono i liquidi di scarto (li vedremo meglio tra poco).
Il tessuto connettivo dei setti, quindi, forma l’impalcatura dell’alveare e divide i lobuli adiposi gli uni dagli altri.

Il sistema linfatico

Ed eccoci arrivati a parlare del sistema linfatico, spesso nominato a sproposito. Si tratta di una complessa rete di vasi, chiamati appunto vasi linfatici, che raccoglie la linfa dai tessuti e la porta verso il sistema venoso.

Ma cos’è la linfa?

La linfa è un liquido fatto di acqua, proteine e cellule di scarto che si accumula nella matrice extracellulare dei tessuti. La sua funzione è di trasportare i liquidi e le sostanze di scarto in modo da mantenere ben pulita la matrice extracellulare, aiutando il sistema venoso a drenare l’acqua.

Le radici del sistema linfatico sono i minuscoli capillari linfatici, piccolissimi tubicini capaci di contrarsi e raccogliere la linfa dai tessuti convogliandola nei vasi linfatici veri e propri.
Grazie alle valvole, questi vasi sono in grado di contrarsi e di spingere la linfa in alto evitando che torni indietro. I movimenti muscolari, la respirazione e la pressione del sangue giocano un ruolo importante nello spingere la linfa verso il cuore, proprio come nella circolazione venosa (Figura 4).

La linfa è veicolata dai vasi linfatici

Figura 4. Un esempio di vaso linfatico con le sue valvole

Anche il sistema nervoso, gli stati psichici, gli ormoni e la temperatura esterna influenzano la contrazione dei vasi linfatici. Si è scoperto da tempo, infatti, che ci sono diverse connessioni tra il cervello e la matrice extracellulare dei tessuti, e che addirittura gli stati emotivi possono influenzare il benessere della circolazione. Il tutto è regolato dal sistema PNEI (Psico-neuro-endocrino-immunitario), una interessantissima scoperta di cui ho parlato anche nel mio libro.

Lungo il tragitto dei vasi linfatici ci sono i linfonodi, le stazioni di servizio che “ispezionano” la linfa verificando che al suo interno non ci siano microrganismi pericolosi. Il sistema linfatico, infatti, ha anche un ruolo nelle difese dell’organismo, perché è costituito da cellule immunitarie come i linfociti.

I vasi linfatici, alla fine del loro decorso, confluiscono nel dotto toracico, che è il più grosso condotto linfatico del corpo. Il dotto toracico confluisce come un fiume nelle grosse vene del torace.

Gambe grosse e doloranti: il lipedema

Il lipedema è una malattia che interessa proprio questi tre organi. Colpisce solo le donne interessando circa il 10% della popolazione, anche se probabilmente i casi sono più numerosi proprio perché è poco conosciuto e non facile da riconoscere.

La caratteristica principale del lipedema è un accumulo di grasso nelle gambe che crea una grossa sproporzione con il tronco. Questo grasso anomalo si accompagna ad aumento dei liquidi nella matrice extracellulare, provocando una risposta infiammatoria simile a quella del linfedema.

Ma quali sono le cause?

Vediamole nel prossimo paragrafo.

Cause del lipedema

Il lipedema è una malattia genetica che si scatena in periodi di cambiamento ormonale. Di solito l’esordio avviene nella pubertà, ma anche dopo una gravidanza o con la menopausa.
In queste situazioni il rimodellamento corporeo provocato dagli ormoni e il cambiamento nella distribuzione dei liquidi rendono evidente la malattia nelle persone predisposte.

Le cause in realtà non sono del tutto note.
C’è sicuramente una familiarità, mentre l’altra causa importante è rappresentata dagli ormoni estrogeni.
Si pensa che nel tessuto adiposo ci sia un’alterazione genetica dei recettori degli estrogeni. I recettori sono le “antenne” che ricevono il segnale dagli ormoni e lo comunicano alla cellula. A causa di queste mutazioni, gli adipociti risponderebbero in maniera anomala al “messaggio” veicolato dagli estrogeni.

Secondo un’altra ipotesi, ci sarebbe inizialmente un’alterazione dei capillari sanguigni e linfatici presenti nel tessuto adiposo. Tutto partirebbe comunque dall’espansione del grasso, che ostacolando l’ossigenazione delle cellule e bloccando i linfatici provocherebbe angiogenesi. Angiogenesi significa che crescono nuovi capillari in risposta alla carenza di ossigeno.
Questa seconda ipotesi di danno ai capillari spiegherebbe un sintomo tipico del lipedema, cioè gli ematomi spontanei(Figura 5).  

Le gambe grosse si associano spesso a ematomi spontanei

Figura 5. Gli ematomi spontanei sono tipici del lipedema

A parte le cause, è importante capire cosa succede quando compare il lipedema e quali possono essere le sue conseguenze.

Come si sviluppa il lipedema

Accumulo di grasso da una parte e maggiore permeabilità dei capillari dall’altra causano una sofferenza delle cellule adipose. Il grasso si accumula, ma non si capisce se gli adipociti aumentino di numero o di dimensione. Sull’altro versante, l’accumulo di liquidi nel connettivo dei setti deforma ulteriormente le cellule adipose, stipate tra di loro.

Le cellule, in risposta a questo stato di “stress”, iniziano ad attivare una risposta infiammatoria. L’infiammazione, nel tentativo di riparare il danno, richiama ulteriormente liquidi e fa accumulare la linfa. Le cellule dell’infiammazione, cioè i globuli bianchi e i monociti-macrofagi, danneggiano ancora di più il tessuto adiposo.
Ciò avviene perché l’infiammazione è una risposta aspecifica che serve a distruggere un presunto agente dannoso, riparando poi la lesione con deposizione di fibre. La fibrosi, cioè l’accumulo di queste cicatrici interne, ostacola ancora di più il drenaggio dei liquidi e il funzionamento delle cellule.

Fortunatamente, per gran parte della durata della malattia, il sistema linfatico riesce a compensare l’accumulo di liquidi incrementando il suo funzionamento. Complici altri fattori, però, la situazione può degenerare quando la capacità del sistema linfatico si esaurisce.

Arrivati a questo punto, gli arti si gonfiano a dismisura e la fibrosi avanza rapidamente. L’infiammazione peggiora e al tessuto si sostituisce una quantità sempre maggiore di fibre. Si arriva così allo stadio finale del lipedema, quando si sovrappone anche il linfedema; si parla in questo caso di lipo-linfedema.
Il lipo-linfedema è caratterizzato da tessuti estremamente duri e fibrosi, gonfiore smisurato e infezioni frequenti della gamba con comparsa anche di ulcere.

Per fortuna, solo una percentuale limitata di casi arriva allo stadio finale. I più a rischio sono i soggetti obesi, perché l’obesità aggrava il lipedema. Per questo la dieta e il controllo del peso sono uno dei capisaldi della terapia, come vedremo più avanti.

Sintomi del lipedema

Le pazienti con lipedema hanno le gambe esageratamente grosse rispetto alla parte alta del corpo. Anche seguendo una dieta ferrea il grasso delle gambe non cala, mentre dimagrisce la parte alta. Questo provoca un notevole disagio psicologico e alcune donne possono manifestare quadri di depressione.

A differenza del linfedema, nel lipedema i piedi e le mani sono sempre sgonfi (tranne nei quadri di lipo-linfedema) e le gambe sono grosse in modo simmetrico (Figura 6). Anche se ci sono casi asintomatici, le gambe di solito fanno male e gli ematomi compaiono senza apparenti traumi. Il dolore viene descritto come senso di tensione o pesantezza alle gambe; durante la giornata i disturbi peggiorano e d’estate diventano insopportabili.

La presenza di gambe grosse può essere dovuta al lipedema

Figura 6. Un esempio di gambe grosse dovute a lipedema

Il grasso del lipedema è soffice, leggermente improntabile (resta un segno dopo aver premuto con un dito a causa dell’accumulo di liquidi), la cute è fredda e ci sono capillari arttorno agli accumuli di grasso. Man mano che il processo di fibrosi va avanti si possono sentire dei noduli al tatto, come nella cellulite.

Il lipedema si può presentare in diverse forme. A seconda di quanto le gambe sono coinvolte, infatti, se ne distinguono cinque tipi.

Facciamo un esempio per capire meglio. Nel lipedema di tipo 1 e 2, l’accumulo abnorme di grasso interessa rispettivamente solo le natiche e le cosce. Come puoi immaginare, non è facile distinguerlo dalla comune cellulite!
Il lipedema di tipo 3, invece, interessa le gambe nella loro totalità ed è quindi intuitivamente più facile da riconoscere. Per concludere, nel tipo 4 c’è un coinvolgimento delle braccia e nel tipo 5 l’ingrossamento colpisce solo le gambe dal ginocchio in giù.

Ci sono altri sintomi?
Spesso il lipedema si associa a eccessiva flessibilità di alcune articolazioni e anomalie della postura a livello di schiena, ginocchia, caviglie e piede. Ci sono problemi di ipotiroidismo nel 30% circa dei casi e anche problemi del sonno.
Infine il lipedema, a causa delle modificazioni corporee che provoca, può portare a stati di ansia e disordini alimentari nelle pazienti affette.

Gambe grosse e doloranti: altre cause

Il lipedema non è l’unica condizione associata a gambe grosse e doloranti. Vediamo le altre cause.

Obesità

Lipedema e obesità spesso coesistono e l’obesità può mascherare il lipedema. Può capitare, infatti, che alcune donne particolarmente obese si sottopongano a interventi per dimagrire scoprendo poi di avere il lipedema.

Cosa distingue l’obesità?

L’esordio non avviene in corrispondenza di cambiamenti ormonali come nel lipedema. Nei soggetti obesi il sistema linfatico non funziona bene e può esserci gonfiore alle gambe, ma non ci sono i sintomi caratteristici del lipedema (dolore, ematomi spontanei, sproporzione gambe-tronco).

Linfedema

Nel linfedema il sistema linfatico smette di funzionare e si manifesta un gonfiore importante di un solo arto. A differenza del lipedema, quindi, c’è sempre asimmetria. Inoltre, il piede è sempre coinvolto dal gonfiore (Figura 7).

Differenza fra lipedema e linfedema

Figura 7. Differenze principali tra linfedema e lipedema

Insufficienza venosa

Questa patologia è molto comune nelle donne e si caratterizza per la dilatazione delle vene delle gambe con comparsa di vari disturbi, tra cui pesantezza, prurito e gonfiore. Inoltre, le vene dilatate diventano sporgenti (vene varicose) e si osservano capillari sulle gambe (Figura 8).

Capillari sulle gambe nell'insufficienza venosa

Figura 8. Insufficienza venosa con capillari sulle gambe

Anche l’insufficienza venosa si manifesta in modo tipicamente asimmetrico. Il gonfiore però è molle, perché il liquido che si accumula è meno denso rispetto alla linfa e l’impronta rimane più facilmente. Tra l’altro nell’insufficienza venosa non c’è accumulo di grasso.

Lipoipertrofia

Questa patologia ha delle caratteristiche simili a quelle del lipedema, come l’aumento di tessuto grasso nelle gambe e la sproporzione con il tronco. Non si osserva però l’edema, quindi premendo non rimangono impronte. Mancano anche il dolore e gli ematomi spontanei, e spesso c’è asimmetria. Il tessuto grasso, infine, non è così soffice come nel lipedema.

Gambe grosse e doloranti: come curarle?

Concentriamoci adesso su come migliorare il problema delle gambe grosse e doloranti e in particolare sulla cura del lipedema.

Poiché una terapia radicale non esiste, l’obiettivo è tenere sotto controllo la malattia. Prima di tutto, quindi, viene la terapia conservativa. In alcuni casi si può ricorrere alla chirurgia.

Terapia conservativa

L’obiettivo della terapia conservativa è controllare i sintomi ed evitare che il lipedema degeneri. In questo modo si aiutano le pazienti a stare meglio e a convivere con il problema.
I punti fondamentali sono il controllo del peso e la gestione dell’edema.

Controllo del peso

Il lipedema favorisce l’obesità, e l’obesità aggrava il lipedema. Per questo è importante controllare il peso corporeo, cosa che tra l’altro migliora anche i sintomi. Per controllare il peso sono necessari una dieta adeguata e uno stile di vita corretto.

Dieta

Non c’è una dieta specifica per il lipedema. Se la paziente è obesa, bisogna ridurre il peso con una dieta ipocalorica, povera di carboidrati e che riduca il picco di insulina dopo i pasti. Un esempio è la dieta chetogenica.

Data la natura infiammatoria della malattia, è molto importante assumere cibi anti-infiammatori, anti-ossidanti e alcalinizzanti. Alcuni esempi sono i flavonoidi contenuti nei frutti rossi, che si possono assumere anche come integratori (un esempio è la diosmina).

Bisogna anche ricordare che il lipedema può associarsi a disordini alimentari, quindi a volte è necessario l’aiuto di uno psicologo.

Stile di vita

Deve essere incentrato su un costante esercizio fisico. L’attività fisica serve non solo per il controllo del peso ma anche per la gestione dell’edema.
L’obiettivo, infatti, è soprattutto ridurre l’accumulo di liquidi nelle gambe. Ciò si ottiene attivando il più possibile la pompa muscolare del polpaccio (Figura 9).

Pompa muscolare del polpaccio

Figura 9. Camminare regolarmente aiuta la circolazione perché attiva la pompa muscolare del polpaccio

Di cosa si tratta?

I muscoli del polpaccio spingono il sangue verso l’alto mentre camminiamo, favorendo in questo modo il drenaggio dei tessuti. Far funzionare bene questi muscoli aiuta quindi a ridurre l’accumulo di liquidi nella matrice extracellulare.

Il modo migliore per attivare la pompa muscolare è camminare con uno schema del passo corretto, focalizzandosi cioè sulla contrazione dei polpacci mentre si solleva il tallone da terra. Bisogna stare attenti a non traumatizzare i tessuti, quindi da evitare sollevamento di pesi e corsa.
Per camminare bene, poi, il piede deve appoggiare correttamente a terra. Ecco perché sono importanti gli esercizi posturali.

Vanno molto bene anche gli esercizi in acqua, sia perché riducono il carico nelle pazienti obese sia perché la pressione dell’acqua aiuta a ridurre l’edema.

Molto utile risulta anche la respirazione diaframmatica, perché favorisce il movimento della linfa verso l’alto. La respirazione diaframmatica si effettua gonfiando la pancia mentre inspiriamo, in modo da creare una pressione negativa che “aspira” verso l’alto il sangue.

Lo stile di vita corretto nel lipedema comprende anche dormire bene e avere una vita sociale e relazionale soddisfacente, per scongiurare i quadri depressivi. Bisogna evitare farmaci che inducano edema o aumento del peso corporeo, ma evitare anche i diuretici perché disidratano ulteriormente la matrice extracellulare.

Gestione dell’edema

Un punto fondamentale della terapia conservativa è sgonfiare le gambe dal liquido in eccesso. Le gambe rimarranno grosse, ma molto meno dolenti e con un migliore controllo dell’evoluzione della malattia.

Come si rimuove l’edema?

Come per il linfedema, il modo corretto di sgonfiare le gambe dai liquidi in eccesso non è la calza elastica ma il bendaggio decongestivo associato alle terapie manuali.

Bendaggio

Il bendaggio decongestivo consiste nell’applicare diversi strati di bende attorno alla gamba. Funzionando come un tutore rigido, il bendaggio consente di creare una differenza di pressione all’interno della gamba tra la condizione di riposo e la deambulazione. Grazie a questa differenza, l’attività muscolare in presenza del bendaggio riesce a rimuovere i liquidi in eccesso dai tessuti (Figura 10).

Il lipedema si cura con il bendaggio decongestivo

Figura 10. Bendaggio decongestivo per il lipedema

E la calza elastica?

Andrà applicata nella seconda fase, quando la gamba è sgonfia. La calza, infatti, non sgonfia la gamba ma mantiene il risultato nel tempo perché esercita una pressione anche quando stiamo fermi. Nel caso del lipedema dovrà essere una calza a trama piatta, quindi particolarmente rigida, per impedire alla gamba di espandersi  quando i liquidi tenderanno inevitabilmente ad accumularsi di nuovo.

Terapie manuali

Per quanto riguarda le terapie manuali, si tratta di tecniche di massaggio che mobilizzano i tessuti molli per ridurre dolore e infiammazione e spingono la linfa verso l’alto (linfodrenaggio).
Naturalmente vanno fatte da personale esperto, perché non devono danneggiare il sistema linfatico e non indurre ulteriore infiammazione e fibrosi.

Chirurgia

La liposuzione è l’unico trattamento in grado di rimuovere il grasso del lipedema e rallentare l’evoluzione della malattia. È stato dimostrato che questo intervento migliora i sintomi, la camminata, la postura e la qualità di vita in generale delle pazienti affette da lipedema.
Se fatta correttamente, la liposuzione migliora anche il drenaggio linfatico e riduce la necessità di utilizzare bendaggi e calze. I suoi effetti terapeutici a lungo termine, però, sono ancora oggetto di studio.

Quando va fatta?
Il primo step è sempre la terapia conservativa. La liposuzione andrebbe effettuata dopo la terapia conservativa se questa non ha dato risultati, e comunque prima che si sviluppino complicazioni e disabilità gravi (lipo-linfedema).

Come va fatta e da chi?
Bisogna rivolgersi a un chirurgo plastico con esperienza specifica nel lipedema. L’intervento di liposuzione, infatti, non è quello standard. Dovrebbe essere fatta una idro-liposuzione per non danneggiare i vasi linfatici, altrimenti il rischio è di avere addirittura un peggioramento della situazione. Anche la tumescenza, cioè l’iniezione di anestetico, deve essere abbondante, così da ridurre dolore e sanguinamento.
Inoltre, a differenza della normale liposuzione, i volumi aspirati sono maggiori e possono essere necessari più interventi intervallati da un certo periodo di tempo.

Se la paziente è pbesa, prima di fare la liposuzione deve perdere peso. Particolare attenzione va fatta anche sotto l’aspetto vascolare, perchè le pazienti con lipedema hanno un maggior rischio di trombosi venosa profonda dopo l’intervento.

Conclusioni

Se hai gambe grosse, doloranti e gonfie potresti essere affetta da lipedema. Non stupirti se non hai mai sentito parlare di questa malattia, perché come hai potuto constatare leggendo l’articolo anche i medici non la conoscono.

Per concludere, vorrei sintetizzare dei consigli pratici che possano aiutarti a migliorare la situazione, riportandoti la mia esperienza.

Molte delle mie pazienti sono affette da lipedema, e qualcuna ha intrapreso un percorso terapeutico specifico presso centri dedicati alla cura di questa malattia.

Ho potuto constatare, però, che tutte hanno avuto un beneficio immediato con la carbossiterapia.
Si tratta di una terapia molto efficace per il microcircolo che consiste in piccole iniezioni di gas medicale, l’anidride carbonica. Lo scopo è quello di ossigenare il tessuto adiposo e il risultato è un immediato senso di benessere e leggerezza alle gambe(Figura 11).

La carbossietrapia aiuta a migliorare i sintomi del lipedema

Figura 11. La carbossiterapia consiste in piccole iniezioni sottocutanee di gas medicale ed è molto utile nel ridurre il dolore alle gambe

Naturalmente la carbossiterapia non è una cura del lipedema, e vanno tenuti presente i concetti base della terapia di cui ti ho parlato. Non essendoci studi in merito, sarebbe interessante verificare questo riscontro empirico ed è quello che mi piacerebbe fare.

Ti voglio dare anche degli altri consigli che riguardano ciò di cui mi occupo, cioè i problemi di circolazione alle gambe.

Nelle donne affette da lipedema è molto importante controllare come funzionano le vene delle gambe, perché molte hanno una sottostante insufficienza venosa. Inoltre, negli stadi avanzati della malattia e in presenza di obesità, aumenta il rischio di trombosi venosa profonda, altro problema vascolare da non sottovalutare.

Cosa fare quindi se hai problemi di vene e lipedema?
Qualora dovessi sottoporti a un intervento per le vene, va fatta molta attenzione a non danneggiare i vasi linfatici. Se possibile, quindi, meglio intervenire con la scleroterapia piuttosto che con incisioni sulla cute o metodiche laser.

Naturalmente, se le varici sono grosse e la vena safena è molto dilatata il laser è necessario. In quel caso bisogna fare particolare attenzione e abbondare con l’anestesia, cercando di lesionare il meno possibile i tessuti.

Come dico sempre, ecco un motivo in più per rivolgersi a uno specialista. Solo chi offre trattamenti a 360 gradi, infatti, può dare la soluzione migliore per ognui paziente.

Se sei affetta da lipedema e ti interessa imparare ad allenarti correttamente, ti suggerisco di dare un’occhiata al sito di Marzia Guerzoni, una personal trainer preparatissima e specializzata nel lipedema!

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC8652358/pdf/10.1177_02683555211015887.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7465366/pdf/Dtsch_Arztebl_Int-117_0396.pdf

D. Corda: Linfedema e Lipedema, conoscerli, riconoscerli, curarli.
Hoepli 2017, Edizioni Minerva Medica

 

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Leggi anche Ematomi spontanei su gambe e braccia: tutto quello che devi sapere e Intervento alla safena: perchè scegliere la tecnica laser?

 

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Gli ematomi spontanei sono molto frequenti nelle donne

Ematomi spontanei su gambe e braccia: tutto quello che devi sapere

Le pazienti che lamentano ematomi spontanei sulle gambe e sulle braccia sono numerose. Anche nella mia esperienza questo riscontro è frequente. Questi lividi compaiono tra l’altro senza alcun trauma apparente.

Gli ematomi spontanei sono un fenomeno poco studiato e le pazienti stesse si chiedono se sia normale oppure no riscontrare questi lividi. Anche per lo specialista è difficile dare una risposta a questa domanda. Spesso, infatti, non si sa se andare a fondo oppure semplicemente rassicurare la paziente.
Di certo il problema è tipicamente femminile ed è importante capire quando va approfondito.

Ci sono dei segnali per capire quando gli ematomi spontanei sono patologici? In quali situazioni invece puoi stare tranquilla?

In questo articolo cercherò di approfondire questo problema e darti tutte le risposte a queste domande.

Ematomi spontanei: di cosa si tratta?

Questo fenomeno è stato poco indagato in letteratura. Gli studi presenti, infatti, sono piuttosto vecchi e risalgono agli anni ottanta e novanta. Di recente non ci sono ricerche degne di nota su questo problema, che resta oggetto di di controversia.

Gli ematomi spontanei sono stati studiati già nel lontano 1984 in un interessante articolo. Un medico canadese, la dottoressa Bernardette Garvey, ha voluto indagare questo fenomeno riportando la sua esperienza di medico di famiglia.

Secondo la sua casistica, ben il 30% delle donne lamenta la presenza di ematomi spontanei. Questo riscontro avviene soprattutto d’estate quando braccia e gambe sono più spesso scoperte.

La maggior parte delle pazienti segnala questo problema perché lo vive come disagio estetico. Alcune altre, invece, sono preoccupate che ci sia un problema di salute. C’è da dire comunque che queste pazienti erano per lo più sane, senza malattie degne di nota.

Ma allora perché si formano questi ematomi?

Nella gran parte dei casi non c’è una causa apparente. Ci sono invece altre situazioni in cui c’è una malattia sottostante.
Vediamo queste due situazioni più nel dettaglio per capire quando è il caso di insospettirsi.

Ematomi spontanei senza causa apparente

Questo fenomeno è stato chiamato in passato “purpura simplex”.

Nella “purpura simplex” gli ematomi spontanei si osservano in persone sane, tipicamente giovani donne tra i 15 e i 30 anni. Non ci sono altri segni di sanguinamento e a volte gli ematomi si intensificano nel periodo mestruale. Inoltre, spesso c’è una storia familiare positiva negli individui di sesso femminile (mamma, zie, nonne).

Gli ematomi spontanei senza causa apparente si osservano più spesso su braccia, cosce e glutei. Hanno dimensioni modeste (di solito il diametro è al massimo di 4-5 cm) e spesso sono conseguenti a traumi molto lievi che la paziente nemmeno ricorda.

In queste donne non si riscontrano alterazioni della coagulazione e non c’è rischio di aumentato sanguinamento qualora dovessero sottoporsi a un intervento chirurgico. Questa condizione non è progressiva e rappresenta per lo più un problema estetico, ma comunque non banale.

Le cause non sono note.
Sono state ipotizzate alterazioni della parete vascolare, che diventerebbe meno resistente a causa degli ormoni sessuali femminili. Secondo uno studio del 1992, infatti, il numero di maschi affetti era nettamente inferiore a quello delle donne. Inoltre, nelle donne gli ematomi erano mediamente più grandi rispetto a quelli degli uomini.
Sempre in questo studio si è osservata una associazione tra fumo e presenza di ematomi. Tuttavia, siccome non c’era rilevanza statistica, non possiamo ipotizzare che ci sia un nesso di causa-effetto.

Un esempio di ematoma spontaneo sulla coscia

Un altro studio un po’ datato ha messo in luce risultati interessanti.
Un insieme di 75 donne con ematomi spontanei è stato suddiviso in due gruppi in base a come funzionavano le piastrine. Nel gruppo 1 le pazienti avevano un normale funzionamento delle piastrine, nel gruppo 2 un funzionamento anomalo.
In entrambi i gruppi i valori della coagulazione del sangue erano normali.

Nel gruppo 1, quello in cui le piastrine funzionavano normalmente, c’è stato un curioso riscontro. Nel 60% di queste pazienti il numero dei megacariociti era più alto del normale.
Cosa sono i megacariociti?
Si tratta le cellule precursori delle piastrine, potremmo dire i loro progenitori. Questo riscontro correlava in alcuni casi anche con la presenza di anticorpi diretti proprio contro le piastrine.

Come possiamo interpretare questi dati?

Le spiegazioni possibili sono due.

La prima presuppone che ci sia una alterazione vascolare come prima causa (il che spiegherebbe gli ematomi spontanei).
Di conseguenza, gli anticorpi dell’organismo si sensibilizzerebbero alle molecole precedentemente protette dall’integrità dei vasi sanguigni. Questi auto-anticorpi reagirebbero anche contro le piastrine, che quindi tenderebbero ad abbassarsi. Il loro numero, però, verrebbe mantenuto entro i valori normali grazie a un incremento della produzione dei precursori, i megacariociti appunto. Ciò spiegherebbe come mai la loro percentuale era più alta.

La seconda ipotesi identifica negli auto-anticorpi l’alterazione iniziale. Queste molecole, prodotte in modo anomalo, sarebbero capaci di colpire sia per le piastrine sia le cellule dei vasi sanguigni, che quindi verrebbero danneggiati. Ciò renderebbe più facile lo sviluppo di ematomi.

Secondo questa interpretazione, la “purpura simplex” farebbe parte di un gruppo più ampio di malattie auto-immuni che distruggono le piastrine, e ne rappresenterebbe una forma più “leggera”.

Ematomi spontanei con malattia sottostante

Vediamo ora quali sono le malattie che possono associarsi alla presenza di ematomi.

Alterazioni delle piastrine

La situazione più frequente è un calo del numero delle piastrine. Si parla in questo caso di piastrinopenia. A cosa servono le piastrine? Sono fondamentali perché tappano eventuali rotture dei vasi sanguigni,evitando le emorragie.

Perché le piastrine diminuiscono?
Può succedere perché ne vengono prodotte di meno oppure perché vengono distrutte più velocemente (questa è la situazione più comune).

Ma in che modo vengono distrutte più rapidamente?
La causa più frequente è di tipo auto-immune, cioè l’organismo produce anticorpi che attaccano proprio le piastrine. Questo può avvenire senza cause apparenti oppure dopo infezioni, assunzione di farmaci o in associazione ad altre malattie auto-immuni.
Spesso il problema si scatena dopo la gravidanza.

Quando le piastrine sono particolarmente basse, gli ematomi hanno caratteristiche ben precise. Si chiamano in questo caso petecchie.

Un esempio di petecchie

Le petecchie sono delle vere e proprie emorragie cutanee che hanno l’aspetto di piccole macchie piatte e puntiformi. Il colore può essere rosso, violaceo o marrone. Spesso somigliano a un’eruzione cutanea, ma non scompaiono premendo con il dito.
Le petecchie si formano tipicamente nelle aree sottoposte a pressione, come ad esempio sotto la cintura, sulle gambe o sui piedi.

Cos’altro può far pensare che le piastrine siano basse?
In questa situazione la paziente di solito è in grado di ricordare quando ha iniziato a sviluppare gli ematomi. Spesso si associano anche mestruazioni particolarmente abbondanti, che prendono il nome di menorragia.

Cosa fare nel sospetto di piastrine basse?
Basta un semplice esame del sangue per vedere se il numero di piastrine è normale. Possono seguire degli esami più specifici e una visita con l’ematologo.

Alterazioni della coagulazione del sangue

In questi casi gli ematomi spontanei si associano a sanguinamento all’interno dei muscoli e delle articolazioni. Si tratta quindi di problemi clinici più gravi.

In presenza di alterazioni della coagulazione del sangue, gli esami mostreranno un allungamento dei tempi di coagulazione (PT e PTT).
Se è allungato il PT può trattarsi di una malattia del fegato oppure di assunzione di farmaci anticoagulanti.

Se è il PTT ad essere alterato si tratta probabilmente di mutazioni nelle proteine della coagulazione, presenti quindi dalla nascita.
In altri casi il motivo può essere la presenza di sostanze anticoagulanti causate da malattie autoimmuni, infezioni oppure dopo il parto.

Farmaci

L’aspirina è il più comunemente responsabile di ematomi spontanei in quanto riduce il funzionamento delle piastrine. Essa provoca un’anomalia nell’attivazione delle piastrine che dura per tutta la loro vita, quindi circa 10 giorni.

L’Aspirina è il farmaco più comunemente associato a ematomi spontanei

Molte pazienti non danno peso a questo effetto dell’aspirina e ne assumono abbondantemente per tosse o raffreddore, dimenticando che è il farmaco che più di ogni altro danneggia le piastrine. Spesso capita che addirittura dimentichino o neghino di averlo assunto.

L’aspirina condivide la sua azione anti-piastrinica con tutti i farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), comunemente usati per dolore e infiammazioni. Bisogna quindi prestare attenzione alla loro assunzione.

Anche altri farmaci possono interferire con le piastrine provocando ematomi spontanei. Alcuni esempi sono gli antibiotici, gli alfa e beta-bloccanti per l’ipertensione, l’eparina sottocutanea, i diuretici e i cortisonici.

Alcool

Grandi quantità di alcolici assunte per un lungo periodo di tempo possono causare alterazioni delle piastrine e delle proteine della coagulazione, provocando ematomi spontanei.

Dieta

La carenza di ferro può associarsi alla presenza di ematomi spontanei e la sua supplementazione con gli integratori migliora il quadro.

Anche la carenza di vitamina C e di zinco causa sanguinamento. Tuttavia, queste situazioni sono abbastanza rare perché si associano a quadri di malnutrizione.

Per quanto riguarda gli alimenti, aglio, cipolla, ginger e caffè possono associarsi ad anomalie nelle piastrine, ma difficilmente provocano alterazioni cliniche visibili. Lo stesso vale per l’olio di pesce.

Gesti autolesivi

Possono essere di due tipi.

L’ingestione volontaria di farmaci anticoagulanti avviene più facilmente in pazienti che sono già in terapia con questi medicinali, ad esempio a seguito di una trombosi venosa profonda.

Si possono osservare però anche gesti autolesivi traumatici, nei casi in cui la paziente si colpisca volontariamente a causa di forte stress o disagi psichici.
Un indizio che rimanda a questa possibilità è la presenza di ematomi sul lato sinistro del corpo in una persona destrimane, o viceversa in un soggetto mancino. Sarebbe infatti impossibile colpirsi sullo stesso arto che si usa per farsi male.

Ricordiamo anche che la presenza di ematomi apparentemente spontanei può sempre essere la manifestazione di un abuso o di una violenza subita.

Ipersensibilità eritrocitaria

Questa particolare malattia si chiama anche sindrome di Gardner-Diamond, dal nome dei due scienziati che la scoprirono negli anni ‘50.

L’ipersensibilità eritrocitaria è una condizione rara e sicuramente sottostimata.
Si caratterizza per la presenza ematomi spontanei dolorosi e ricorrenti che compaiono soprattutto su braccia e gambe. Gli ematomi compaiono dopo stress emotivi o banali traumi, e c’è un’associazione con gli stati di ansia.
Si osservano in rari casi anche emorragie in altri organi, mal di testa e disturbi visivi, ma anche dolori addominali, muscolari e articolari.

L’ipersensibilità eritrocitaria colpisce tipicamente donne dai 15 ai 40 anni, mentre gli uomini sono colpiti 20 volte meno frequentemente. Questo indica, anche qui, un ruolo degli ormoni estrogeni. Essi, infatti, riducono la resistenza di vene e capillari.

Quali sono le cause di questa malattia?
Dal nome stesso sappiamo che si tratta probabilmente di una reazione auto-immunitaria. Infatti, nei soggetti affetti si osservano anticorpi diretti contro i componenti dei globuli rossi (eritrociti).
Quando questi anticorpi colpiscono il bersaglio, si attiva una risposta infiammatoria che provoca gli ematomi e il dolore.
Non raramente questa malattia si associa ad altre patologie auto-immuni.

Ematomi spontanei e lipedema

Questa patologia merita un approfondimento a parte.
Il lipedema è una condizione clinica probabilmente sottostimata e poco conosciuta anche tra i medici, e colpisce praticamente solo le donne.
La sua caratteristica principale è un accumulo abnorme di grasso negli arti inferiori, che crea una forte sproporzione con il tronco. Le pazienti affette vivono con disagio questa conformazione corporea e non riescono a eliminare il grasso nemmeno con la dieta.

Nel lipedema il grasso si accumula nelle gambe creando una sproporzione con il tronco

Il lipedema si caratterizza anche per altri sintomi. Le gambe sono pesanti e dolenti e spesso si osservano ematomi spontanei, segno di una concomitante fragilità capillare.
Inoltre, a differenza del linfedema, il piede non è mai coinvolto e c’è sempre una simmetria tra i due arti.

Quali sono le cause del lipedema?
Non sono note, ma si pensa anche in questo caso che gli ormoni estrogeni abbiano un ruolo fondamentale. Questo spiegherebbe perché il lipedema tende a comparire con la pubertà e a regredire dopo la menopausa.
Anche la predisposizione genetica ha però un ruolo chiave.

Quali sono le sue conseguenze?
Se non controllato con una dieta adeguata, il lipedema può diventare una malattia degenerativa. In questo caso l’accumulo di grasso diventa tale da compromettere anche il drenaggio linfatico delle gambe. Si possono quindi osservare dei gonfiori estremamente importanti che prendono il nome di lipo-linfedema.

Ematomi spontanei: quando insospettirsi?

Come abbiamo detto, nella maggior parte dei casi puoi stare tranquilla perché si tratta di un fenomeno benigno.
Cerchiamo però di capire quando bisogna farsi visitare. I principali elementi da tenere in considerazione sono la sede e la durata degli ematomi spontanei.

Sede

Se gli ematomi compaiono su gambe e braccia allora sono più facilmente  benigni. Se però si manifestano in aree meno esposte a traumi come faccia, collo, addome o schiena, bisogna sempre sospettare una patologia.

Sarebbe anche utile capire se ci sono altre manifestazioni di sanguinamento.
Ad esempio, le pazienti con piastrine basse hanno spesso emorragie nelle mucose (gengive, naso) e petecchie sulla cute. Inoltre, hanno sanguinamenti prolungati subito dopo un trauma.
Se invece ci sono problemi nei fattori della coagulazione, gli ematomi si estendono a muscoli e articolazioni e compaiono alcune ore dopo il trauma.

Infine, se gli ematomi si associano a un aumento significativo del flusso mestruale, allora bisogna sospettare un problema di piastrine basse o malfunzionanti.

Durata

Molto importanti sono la durata e la severità degli ematomi.
Se essi sono presenti da tempo e non ci sono altri sanguinamenti anomali, probabilmente sono benigni. Se invece c’è una recente insorgenza bisogna sospettare una patologia.

Alcune persone lamentano sanguinamento abbondante dopo interventi chirurgici, ma bisogna capire se ci sono altri fattori che possono causarlo. Ad esempio, se durante l’intervento c’è necessità di molte trasfusioni oppure l’emorragia rende necessario un secondo intervento, allora potrebbe esserci un problema.

Ematomi spontanei: come trattarli?

Gli ematomi spontanei senza causa apparente non si possono eliminare alla radice. Tuttavia, può essere utile rinforzare i capillari sanguigni con dei principi attivi naturali. In questo modo si potrà ridurre l’entità dei lividi e accelerarne il riassorbimento.

Quali sono questi principi attivi?
Ci sono degli integratori da prendere per bocca e creme da applicare a livello degli ematomi.
Vediamoli nel dettaglio.

Integratori

Gli integratori utili per gli ematomi spontanei appartengono alla famiglia dei flavonoidi. Si tratta di sostanze di origine vegetale che hanno diverse proprietà.
I flavonoidi rinforzano la parete dei vasi sanguigni, regolano la permeabilità dei capillari e combattono l’infiammazione. Poiché gli ematomi sono causati da fragilità capillare e conseguente infiammazione, i flavonoidi sono un valido aiuto.

I flavonoidi principali sono il Rusco, la Centella Asiatica e l’Escina. Ne ho parlato in questo articolo e in questo.

Creme

Le creme agiscono localmente potenziando l’azione antinfiammatoria degli integratori. Si applicano direttamente sugli ematomi per accelerarne il riassorbimento e quindi la scomparsa.

I principi attivi più importanti contenuti nelle creme sono l’Arnica e la Bromelina.
Vediamo quali benefici danno.

Arnica

L’Arnica Montana è una pianta perenne appartenente alla famiglia delle Asteraceae. Si trova ad alte quote in Europa, Asia settentrionale, Siberia e America.

Fiori di Arnica Montana

Le proprietà medicinali dell’Arnica sono note da tempo. Dai suoi fiori si estrae una tintura che si può assumere per bocca o applicare localmente come crema o gel.

Come agisce l’Arnica?
Innanzitutto, ha un’azione antinfiammatoria e analgesica. Le creme all’Arnica sono efficaci su ematomi o contusioni proprio perché riducono l’infiammazione conseguente alla rottura del vaso sanguigno.

Questa pianta ha però anche delle proprietà benefiche sul sangue.
L’arnica ha un effetto anti-trombosi perché interferisce con un composto presente nelle piastrine, ostacolando la loro attivazione.
Ha d’altra parte anche una attività anti-emorragica, come dimostrato da uno studio su giovani donne di 20-35 anni nel quale si è riscontrata una diminuzione delle emorragie post partum.

Il mio consiglio è di applicare una crema all’Arnica a livello degli ematomi per 2-3 volte al giorno, fino al loro riassorbimento.

Bromelina

La bromelina è una proteina che si estrae dalla pianta di ananas.
Anche se presente nel frutto, la sua maggior concentrazione si trova nel gambo dell’ananas. Poiché questa parte della pianta viene di solito scartata, l’estrazione della bromelina è più facile e meno costosa.

La bromelina è presente in grandi quantità nel gambo della pianta di ananas

Le proprietà benefiche della bromelina sono note da più di 70 anni.
Il suo principale beneficio è un’azione antinfiammatoria, motivo per cui è molto spesso usata per ridurre dolore e gonfiore a seguito di infortuni. Questa proprietà è dovuta alla capacità della bromelina di regolare la produzione di prostaglandine, sostanze prodotte in presenza di traumi e infiammazioni.

Molti studi dimostrano l’efficacia della bromelina dopo interventi chirurgici, traumi e in presenza di trombosi venosa superficiale. La sua applicazione riduce i sintomi e accelera la guarigione.
La bromelina ha però anche degli altri effetti positivi.
A basse dosi facilita la coagulazione del sangue, mentre a dosi più alte contrasta l’attivazione delle piastrine e la trombosi.

Come può essere assunta?
Localmente sotto forma di crema, da applicare anche qui a livello degli ematomi per 2-3 volte al giorno.

La bromelina è ben tollerata e poco tossica per l’organismo, anche a dosaggi elevati, e può essere assunta anche per bocca senza significativi effetti collaterali, anche per lunghi periodi.
Il dosaggio è 500 mg per 2-3 volte al giorno.

Conclusioni

Nella maggior parte dei casi gli ematomi spontanei sulle gambe e sulle braccia non sono pericolosi. Si tratta però di un problema estetico non da poco, perchè provoca un certo disagio soprattutto in estate.

Abbiamo visto che si tratta di una problematica per lo più femminile, in quanto legata agli ormoni estrogeni. In questi casi puoi stare tranquilla perchè non si tratta di una patologia degenerativa. Ci sono comunque dei rimedi naturali che possono migliorare la situazione.

In alcuni casi esistono degli indizi che fanno pensare a un sottostante problema di salute. In queste situzioni è meglio rivolgersi a uno specialista e andare a fondo.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2154228/pdf/canfamphys00223-0135.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2145765/pdf/canfamphys00126-0055.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC8240244/pdf/NCI-8-310.pdf

Arnica montana L. – a plant of healing: review (silverchair.com)

R34Y2021N04A0345.pdf (minervamedica.it)

Nutrients | Free Full-Text | Beneficial Properties of Bromelain | HTML (mdpi.com)

 

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Il trattamento della vena safena permette di migliorare l'aspetto delle gambe

Intervento alla vena safena: perché scegliere la tecnica laser?

La vena safena è un vaso sanguigno che raccoglie il sangue proveniente dalla gamba e lo convoglia verso l’inguine, dove si collega con le vene profonde.

Quando si ammala a causa dell’insufficienza venosa, la vena safena si dilata perdendo la sua funzione drenante. Il sangue tende a ristagnare e si avvertono fastidiosi sintomi come dolore, prurito e pesantezza alla gamba.
In questi casi viene solitamente consigliato di sottoporsi ad un piccolo intervento: si tratta dello “stripping” della safena.

Per molti anni lo “stripping” è stata l’unica operazione proponibile per questo problema. Pur trattandosi di una procedura efficace, è un intervento invasivo e può complicarsi con irritazioni nervose, cicatrici antiestetiche e comparsa di recidive.

Ci sono altri possibili trattamenti?
Negli ultimi anno si sono sviluppate metodiche meno invasive, come la termo-ablazione laser associata a schiuma sclerosante.

In questo articolo vedremo i vantaggi di questa procedura e perché può essere considerata una valida alternativa allo “stripping”.

Vena safena: che cos’è e a cosa serve

Con il termine “vena safena” indichiamo un gruppo di vene che hanno delle caratteristiche comuni.
Quali?

Primo, si trovano all’interno della fascia che avvolge i muscoli. Quindi non sono troppo superficiali né troppo profonde.
La vena safena, infatti, non si vede dall’esterno tranne che in soggetti molto magri.

Secondo, servono a spingere il sangue verso l’alto mentre camminiamo. Ciò avviene grazie alla contrazione dei muscoli del polpaccio in sinergia con l’azione delle valvole venose.

Cosa accade nello specifico?
I muscoli del polpaccio funzionano come una pompa che spinge il sangue. Le valvole sono delle dighe che si aprono e si chiudono all’interno della vena.

Mentre camminiamo il sangue all'interno della vena safena viene spinto in alto

Mentre camminiamo il sangue all’interno della safena viene spinto in alto

Quando facciamo un passo, contraiamo il muscolo e il sangue viene spinto in alto. In questa fase le valvole sono aperte e fanno passare il sangue. Quando il muscolo si rilassa (cioè facciamo un passo con l’altra gamba), le valvole si chiudono impedendo al sangue di tornare indietro, come naturalmente avverrebbe a causa della forza di gravità.

Quali sono le vene che appartengono all’insieme delle safene?
La vena grande safena è la più conosciuta. Origina dalla caviglia e si localizza sulla parte interna della gamba e della coscia. Nel suo tratto finale, all’altezza dell’inguine, diventa più profonda e forma un arco chiamato “crosse”.

Come un torrente che sbocca in un fiume più grosso, la “crosse” confluisce con una vena più profonda, la vena femorale.
Proprio a questo livello la grande safena presenta due grosse valvole: la valvola pre-terminale e la valvola terminale. È importante capire se queste valvole funzionano correttamente perché da ciò dipende la necessità di operare o no. Questo dato si ottiene con l’esecuzione di un ecodoppler venoso.

Per studiare le vene visibili sulle gambe lo strumento più adatto è l'ecodoppler

L’ecodoppler venoso è fondamentale per capire se la vena safena funziona correttamente

La vena piccola safena decorre nella parte centrale del polpaccio. Circa all’altezza del cavo popliteo, cioè dietro il ginocchio, confluisce nella sua corrispondente vena profonda, la vena poplitea.

Ci sono altre due vene che appartengono all’insieme delle vene safene, oltre alla grande e alla piccola safena.
La vena safena accessoria anteriore è presente solo in alcuni individui. Si trova di fianco alla vena grande safena, più lateralmente.
La vena di Giacomini, che prende il nome dallo scienziato che l’ha scoperta, connette tra di loro la grande e la piccola safena.

Per semplicità, in questo articolo ci soffermeremo sulla vena grande safena, chiamandola semplicemente “vena safena”.

Vena safena: quando si fa l’intervento

La vena safena è un vaso importante e se possibile va preservata. Tra le varie ragioni, potrebbe servire per un futuro bypass alle coronarie.
Ci sono però delle situazioni in cui si ammala al punto tale da rendere opportuno un intervento.

Di cosa sto parlando?

L’insufficienza venosa è una malattia degenerativa nella quale le vene perdono la loro funzione drenante e si dilatano progressivamente.
Le cause sono molteplici e notoriamente sono le donne a soffrirne più spesso.

Nelle persone affette da insufficienza venosa, le valvole delle vene non funzionano bene e il sangue tende a tornare verso il basso. Si parla in questo caso di reflusso, cioè di un flusso di sangue non fisiologico.
Inoltre, le vene di superficie si dilatano, diventando vene varicose.

Le vene varicose spesso si associano a reflusso nella safena

Le vene varicose spesso si associano a reflusso nella safena

Cosa succede alla safena?

Le vene varicose sono più superficiali e vanno proprio a confluire con la safena. Il reflusso del sangue al loro interno agisce con un meccanismo di aspirazione sulla safena stessa. Il sangue, infatti, si dirige sempre dove incontra meno resistenza.

Per questo motivo, anche all’interno della safena comparirà un reflusso, peggiorando la situazione. La safena si dilata a sua volta, anche se più lentamente perché sostenuta dalla fascia muscolare che la avvolge.

Con il tempo, le valvole smetteranno di funzionare e il sangue proveniente dalle vene profonde si riverserà nella safena all’altezza dell’inguine. A questo punto iniziano comparire i disturbi.

Quali sono i sintomi più frequenti?
Pesantezza e dolore alla gamba, oltre che prurito e gonfiore. Sono sintomi dovuti proprio al ristagno del sangue e alla conseguente sofferenza dei tessuti.
Nei casi più gravi compaiono anche ulcere, tipicamente alle caviglie.

Un altro problema è la trombosi venosa superficiale. Si tratta di una coagulazione anomala del sangue che può verificarsi sia nelle varici che nella safena.
La trombosi è favorita proprio dal ristagno del sangue e dalla dilatazione delle vene, oltre che dalle alte temperature esterne. Infatti, si verifica più frequentemente d’estate.

Infine, non bisogna dimenticare il fattore estetico. Anche in assenza di sintomi, infatti, queste vene sono brutte da vedere oltre che potenzialmente pericolose. Trattandosi di una malattia degenerativa è importante prendersene cura per tempo e intervenire.

Ed è qui che entra in gioco l’intervento chirurgico.

Vena safena: come si fa l’intervento?

L’intervento alla vena safena serve a ristabilire una situazione di equilibrio quando la circolazione del sangue è compromessa. In particolare, se la valvola terminale non funziona ci sarà un rubinetto aperto di sangue pronto a riversarsi nella gamba ogni volta che ci alziamo.
Lo scopo dell’intervento è quello di chiudere il rubinetto e rimuovere le vene di superficie non più funzionanti.

Ma cosa succede al sangue una volta fatto questo?
La domanda è più che lecita e molti pazienti la pongono.

Per rispondere facciamo un esempio.

Immaginiamo un’imbarcazione di canottieri che remano tutti nella stessa direzione. In questa situazione la barca si muoverà senza alcun intoppo nella direzione prestabilita, perché i rematori lavorano all’unisono.
La stessa cosa avviene quando le vene sono sane e spingono il sangue verso l’alto.

Cosa succede se un rematore inizia a spingere in direzione contraria?
Il movimento dell’imbarcazione ne risentirà sicuramente e ci sarà un’alterazione nella sua traiettoria. Se togliamo quel rematore “anomalo”, però, la situazione tornerà normale.

Allo stesso modo, in presenza di una vena non funzionante la circolazione sarà alterata. Infatti, mentre nelle vene sane il sangue si muove verso l’alto, in quella malata torna indietro.
Bloccando il reflusso alla sua origine e chiudendo la vena alterata, l’intervento rimetterà in equilibrio il sistema.

Ma come avviene nello specifico l’intervento alla vena safena?
Iniziamo descrivendo lo “stripping”, poi vedremo l’alternativa meno invasiva.

Stripping

Si tratta del classico intervento alla safena.
Pur essendo per certi versi un po’ superato, si pratica ancora spesso soprattutto negli ospedali.

Lo “stripping” della vena safena consiste in due fasi.
La prima è la “crossectomia”, la seconda è l’asportazione per strappamento della safena.

Vediamo meglio di cosa si tratta.

Crossectomia

Il nome stesso ci dice che si tratta dell’asportazione della “crosse”.
Come abbiamo detto, la “crosse” è l’arco che la safena descrive a livello dell’inguine. In questo arco, tra l’altro, confluiscono delle piccole vene provenienti dalla superficie.

La crossectomia è di fatto un’asportazione “funzionale” della “crosse”, perché essa viene sigillata e lasciata in sede.
Questa procedura, infatti, consiste nella chiusura della vena safena vicino alla confluenza con la vena femorale. Inoltre, vengono chiuse anche le vene che sboccano nella “crosse”.

Come si effettua la “crossectomia”?
Attraverso una piccola incisione all’inguine si raggiunge la vena safena e le si mette attorno un laccio. È importante che la chiusura avvenga il più vicino possibile alla vena femorale. Infatti, lasciare un pezzo di safena  in sede potrebbe favorire la comparsa di recidive.

Strappamento

La seconda fase dell’intervento è proprio lo “stripping”, cioè lo strappamento della vena safena.
Lo “stripping” può essere lungo, corto o ultra-corto.

Lo stripping lungo prevede l’asportazione di tutta la safena.
Veniva classicamente effettuato in presenza di malfunzionamento della valvola terminale e reflusso lungo tutta la safena. Come si effettua? Dopo aver fatto la “crossectomia” si inserisce una sonda nella safena all’altezza della caviglia e la si fa progredire fino all’inguine. A questo punto si ancora la vena e la si strappa.

Al giorno d’oggi si tende  però a preferire lo “stripping” corto. In questo caso la sonda scende dall’inguine verso il basso, fino a poco sotto il ginocchio. La safena al di sotto di questo punto, quindi, viene lasciata in sede.

Lo “stripping” può essere anche ultra-corto, se si rimuove la safena fino a metà coscia.

Vantaggi e svantaggi dello stripping

Lo “stripping” della vena safena è certamente efficace e dà buoni risultati nel lungo periodo, proprio perché è radicale.

Per lo stesso motivo, d’altra parte, ha tempi di recupero più lunghi rispetto alle metodiche mini-invasive. Inoltre, richiede in genere l’anestesia spinale (quindi una puntura sulla schiena).

Lo stripping della safena richiede tempi di recupero più lunghi

Lo “stripping” della safena richiede tempi di recupero più lunghi rispetto alle metodiche meno invasive

Un altro aspetto da ricordare è che può avere delle complicazioni.
Le più frequenti sono ematomi e irritazione dei linfonodi. Da ciò possono derivare fuoriuscita di liquido e problemi di cicatrizzazione della ferita inguinale, specie se il paziente è obeso.
Seppur raramente, sono anche descritte lesioni accidentali dell’arteria femorale.

Un altro rischio da tenere presente è l’irritazione nervosa.
Vicino alla safena, infatti, c’è un nervo che ha lo stesso nome (nervo safeno). All’altezza della caviglia questo nervo è particolarmente vulnerabile, quindi in caso di “stripping” lungo bisogna fare molta attenzione a non lesionarlo.
Se questo dovesse accadere, non ci sarebbero deficit di movimento ma piuttosto fastidiosi formicolii, sensazione di scosse elettriche o perdita di sensibilità.

Infine, non bisogna dimenticare il problema delle recidive.
Dopo lo “stripping”, infatti, si osserva la comparsa di nuove vene varicose all’interno della fascia muscolare che ospitava la safena.
Queste vene, chiamate appunto recidive, finiscono poi per collegare nuovamente la vena profonda con le vene di superficie. Si ricrea quindi il problema del reflusso e del rubinetto aperto.

Come mai si formano queste recidive?
Il fenomeno alla base si chiama neo-vascolarizzazione. Letteralmente, ciò significa che a seguito del trauma dovuto all’intervento si sviluppano nuove vene.
Lo strappamento, infatti, crea per forza di cose un danno ai tessuti. L’organismo, che reagisce con un processo di infiammazione, risponde liberando delle sostanze chiamate fattori di crescita. I fattori di crescita stimolano le cellule vascolari a produrre nuovi vasi sanguigni.

Le recidive da neo-vascolarizzazione sono vene molto tortuose e facilmente identificabili con l’ecodoppler. Secondo alcuni studi, esse compaiono abbastanza precocemente dopo l’intervento.
Questo fenomeno, come vedremo dopo, non avviene con il trattamento laser.

Laser

Il trattamento laser della safena è una procedura cosiddetta “endovascolare”, perché agisce sulla vena dall’interno.
L’energia erogata dal laser, infatti, consente di bruciare e quindi chiudere un breve tratto di safena. Rispetto allo “stripping” il risultato è lo stesso, ma si ottiene in modo meno invasivo.

Ma che cos’è il laser e come funziona sulla safena?

Vediamo.

Che cos’è il laser

Il laser è un fascio di luce, quindi un’onda elettromagnetica. Grazie alle sue particolari caratteristiche, esso colpisce uno specifico bersaglio e lo distrugge attraverso la trasmissione di calore.

Quali sono queste caratteristiche?
La più importante è la lunghezza d’onda. Anche il tipo di fibra ha la sua importanza.

Lunghezza d’onda

Si tratta della distanza, espressa in nanometri (nm) quindi estremamente piccola, tra due onde consecutive del fascio di luce. Questo parametro è unico per ogni laser e stabilisce quale sarà il bersaglio colpito.

I primi laser per la vena safena avevano una lunghezza d’onda compresa tra 810 e 980 nm.
Questi laser, tuttora usati per bruciare vene più piccole, hanno una elevata affinità per l’emoglobina dei globuli rossi.

I laser 808-810 si usano per le vene reticolari

I laser 808-810 si usano per trattare piccole vene visibili sulle gambe

La loro azione principale, quindi, è di provocare la coagulazione del sangue attraverso il calore e quindi la chiusura della vena. Lo stesso calore verrà poi trasmesso alla parete della vena stessa. La risposta infiammatoria e la conseguente fibrosi completeranno il processo di occlusione.

I laser di ultima generazione, invece, hanno una lunghezza d’onda di 1470 nm.
Diversi studi hanno mostrato che questi laser danno migliori risultati nel trattamento della safena rispetto a quelli più vecchi. In particolare, il 1470 provoca meno frequentemente complicazioni post-operatorie come dolore, sanguinamento e formicolii. Anche la soddisfazione dei pazienti è maggiore.

Come mai?
Il motivo è che il 1470 ha una maggiore affinità per l’acqua rispetto all’emoglobina del sangue. Poiché l’acqua è concentrata nelle pareti della vena, il fascio laser colpirà in prima battuta proprio questo bersaglio.
Ciò si traduce in una maggiore capacità di chiudere la safena e nella possibilità di usare energie più basse. Energie più basse equivalgono a meno rischi.

C’è però, come abbiamo detto, un altro parametro che fa la differenza. Si tratta del tipo di fibra.

Fibra laser

La fibra è il dispositivo attraverso il quale la luce prodotta dalla sorgente laser viene emessa verso l’esterno.
La fibra che si usa per trattare la safena è un lungo bastoncino flessibile, alla cui estremità avviene l’emissione della luce. Si tratta di un dispositivo molto sottile (il suo diametro è circa 6 mm).

Fibra laser per la vena safena

Fibra laser per il trattamento della vena safena

Come dimostrato da diversi studi, il tipo di fibra usata è determinante in termini di efficacia dell’intervento.
In particolare, è molto importante la configurazione dell’estremità della fibra. A questo livello, come abbiamo detto, avviene l’emissione del laser.

In passato si utilizzavano fibre con estremità piatta e scoperta, collegate a laser con lunghezza d’onda di 810 nm.
Queste fibre di prima generazione emettevano una luce laser diretta solo in avanti. Inoltre, a causa della loro forma, potevano perforare facilmente la safena. C’era quindi un maggior rischio di sanguinamento, ma anche di ustione dei tessuti o lesioni nervose.

Inoltre, utilizzando queste fibre non ci si poteva avvicinare troppo alla giunzione tra safena e vena profonda. Essendo la luce diretta in avanti, infatti, c’era il rischio di lesionare la vena femorale e quindi di provocare una trombosi venosa profonda.
Si tendeva quindi a lasciare un residuo di safena di circa 1,5-2 cm, che poteva facilmente causare la comparsa di recidive.

Le fibre di ultima generazione hanno invece una punta protetta. In questo modo, il rischio di perforare la safena è nettamente minore.
Inoltre, hanno una emissione cosiddetta “radiale“. La luce cioè non viene emessa dritta e in avanti, ma a 360 gradi in maniera circonferenziale.
In questo modo il laser colpisce tutta la parete della vena e il tasso di occlusione è praticamente del 100%. Con la fibra radiale ci si può avvicinare maggiormente alla giunzione tra safena e vena femorale, senza lasciare residui di vena.

Inoltre, essendo la fibra radiale più efficace, lo stesso risultato si ottiene con energie laser minori. Come abbiamo visto, questo significa anche meno rischio di complicazioni e più comfort per i pazienti.

Come funziona l’intervento laser

L’intervento laser alla vena safena è totalmente ambulatoriale. Non c’è bisogno di ricovero e dopo circa un’ora si può tornare tranquillamente a casa.

Come viene effettuato?
In anestesia locale e senza ricorrere ad incisioni, si inserisce una piccola sonda all’interno della safena facendo una puntura sulla parte bassa della coscia.
Attraverso questo dispositivo la fibra laser può entrare e scorrere nella safena dall’interno, risalendo fino all’inguine. Il tutto viene monitorato con l’ecodoppler.

Inserimento della fibra laser nella safena

Schema dell’inserimento della fibra laser nella vena safena

Una volta portata la fibra a destinazione, il laser viene azionato e sigilla la safena alla confluenza con la vena femorale. In questo modo senza effettuare la “crossectomia” il rubinetto viene completamente chiuso.

In questa fase l’anestesia è effettuata sotto forma di “tumescenza”, iniettando cioè l’anestetico all’interno della fascia muscolare che ospita la safena. Il paziente non avverte dolore e al minimo fastidio si può incrementare l’anestesia fino al massimo comfort.

La seconda fase dell’intervento prevede l’iniezione di schiuma sclerosante all’interno della safena, per renderne più efficace la chiusura. Si tratta di una sostanza che infiamma la parete della vena provocando fibrosi attraverso un processo infiammatorio.

Infine, una nuova emissione laser lungo la vena assicurerà un risultato ottimale.

Terminata la parte laser, si rimuovono le vene varicose di superficie attraverso una procedura chiamata “flebectomia”. L’asportazione delle varici avviene sempre in anestesia locale, senza incisioni ma attraverso piccoli fori praticati sulla cute. Con un semplice uncino, esse vengono agganciate e asportate.

Alla fine dell’intervento è fondamentale indossare una calza elastica per ottimizzare il risultato e prevenire complicazioni. La calza dovrà essere indossata per circa un mese, anche di notte nella prima settimana.

Vantaggi del laser

Per quali motivi allora dovremmo optare per il laser?

In base agli studi presenti in letteratura, il trattamento laser della vena safena presenta dei vantaggi rispetto allo “stripping”.
I risultati a breve termine mostrano che i pazienti trattati con laser hanno un migliore recupero, minore dolore post-operatorio e minori complicazioni nervose rispetto a quelli sottoposti a “stripping”.

Uno studio condotto in Norvegia, in particolare, si è focalizzato sull’analisi della qualità di vita.
L’intervento con laser ha determinato, rispetto allo “stripping”, un minor periodo di convalescenza con più rapido ritorno alle attività quotidiane e allo sport. Anche il rientro al lavoro è stato più precoce nei pazienti trattati con laser.
A distanza di un anno, inoltre, la percentuale di successo del laser risulta simile a quella dello “stripping”.

Per queste ragioni, le attuali linee guida americane raccomandano per la vena safena il trattamento laser come prima scelta.

Questi risultati a breve termine del trattamento laser sono stati confermati anche per la piccola safena.
Secondo uno studio, infatti, a distanza di due anni sia il laser che lo “stripping” hanno mostrato efficacia simile in termini di occlusione della vena e miglioramento dei sintomi.
Anche in questo caso, però, i pazienti trattati con laser hanno avuto meno dolore, meno lesioni nervose e recupero più veloce.

Anche le percentuali di recidive e di pazienti che hanno subito un secondo intervento sono risultate comparabili tra le due metodiche.
Come vedremo più avanti, però, la recidiva che compare dopo il laser è diversa rispetto a quella dello “stripping”.

Svantaggi del laser

Anche il laser naturalmente può avere delle complicazioni. La principale è la trombosi venosa profonda (chiamata anche TVP).
Si tratta in realtà di una complicanza possibile dopo qualsiasi intervento. È pericolosa perché può associarsi al distacco di emboli che vanno a finire nei polmoni.

Secondo uno studio, la percentuale di trombosi venosa profonda a seguito di intervento laser alla safena è di circa 1,5%. La vena colpita da trombosi è risultata in genere lontana dalla zona trattata con il laser.
Naturalmente, questa complicanza può avvenire anche dopo lo “stripping”.

C’è però una trombosi particolare che è strettamente correlata all’intervento laser. Si chiama in inglese “Endovenous Heat Induced Thrombosis”, che significa letteralmente “trombosi causata dal calore”.

Chiamata anche con l’acronimo EHIT, questa trombosi si localizza proprio a livello della vena femorale nel punto in cui essa si unisce con la safena. Si tratta dello stesso punto dove viene emessa la radiazione laser.
Sembra che i fattori di rischio per questa complicanza siano il diametro particolarmente grande della safena, il sesso maschile e una storia di precedenti trombosi.
La sua frequenza è piuttosto variabile negli studi presenti in letteratura.

Altre lievi complicanze da tenere presente con l’intervento laser sono dolore e formicolii lungo il decorso della safena. Si tratta comunque di sintomi lievi che scompaiono a distanza di qualche settimana.

Sono descritti anche episodi di rottura della fibra laser durante l’intervento. In questi casi i frammenti del dispositivo possono rimanere nel tessuto sottocutaneo e comportarsi come un corpo estraneo.
Le infezioni sono comunque molto rare.

Altrettanto rare sono le ustioni, mentre più spesso si osservano pigmentazioni sulla cute.
Le pigmentazioni appaiono come un colorito scuro della pelle proprio nella zona in cui viene bruciata la safena. Sono dovute per lo più ad infiammazione, compaiono in circa il 5% dei casi e sono più frequenti quando la safena è particolarmente superficiale.
Si tratta comunque di un fenomeno che pian piano scompare da solo.

L’ultima complicanza da menzionare è la comparsa di recidive.
Dopo l’intervento laser non compare il fenomeno della neo-vascolarizzazione perchè non si strappa la safena. Si può osservare però il fenomeno della “ricanalizzazione”: succede cioè che la safena chiusa con il laser può riaprirsi a distanza di tempo e provocare nuovamente disturbi.

Secondo uno studio condotto in passato, a 5 anni di distanza le recidive in regione inguinale erano più frequenti nei pazienti operati con laser rispetto a quelli trattati con stripping.
Questa ricerca prendeva in esame trattamenti laser di vecchia generazione, nei quali non si poteva sigillare la safena troppo a ridosso della vena femorale. Questo spiega perché la frequenza di recidive risultava così alta.
Per lo stesso motivo, si tendeva a lasciare aperta la safena accessoria, che spesso si unisce alla grande safena poco prima dell’inguine. Anche questo fatto esponeva alla comparsa di reflusso in questa vena, e quindi si rendeva necessario un nuovo intervento.

I laser di ultima generazione sono molto più efficaci e provocano recidive in misura molto minore. Come abbiamo detto, il motivo è che sigillano più efficacemente la vena e lo fanno senza lasciare residui.

Conclusioni

Dopo aver letto questo articolo spero che tu possa avere le idee più chiare su come trattare al meglio la vena safena.

Nella mia esperienza, il trattamento laser è un ottima soluzione ed è molto più tollerabile per il paziente. Purtroppo non è così diffuso negli ospedali, sia per il costo dell’apparecchiatura sia per la scarsa attenzione ai problemi venosi che spesso si osserva.

Prendersi cura delle vene è importante, non solo per un fatto estetico ma soprattutto per la propria salute. Le complicazioni di queste patologie non vanno sottovalutate ed è sempre opportuno rivolgersi ad uno specialista, cioè qualcuno che si occupi di questi problemi in maniera dedicata e non nei ritagli di tempo.

Fonti

https://www.jvascsurg.org/action/showPdf?pii=S0741-5214%2810%2900039-X

https://www.ejves.com/action/showPdf?pii=S1078-5884%2810%2900262-5

https://www.minervamedica.it/it/getfreepdf/TXdyN0YvcGtFbng4YnduRmJFU0tmS0hQYXFybTlzWnM1d1lsR0kzTlNnY0FlY3lxSHZtOGN0Nm5YQU85czBRNA%253D%253D/R34Y2019N02A0096.pdf

https://www.europeanreview.org/wp/wp-content/uploads/7777-7786.pdf

https://www.ejves.com/action/showPdf?pii=S1078-5884%2815%2900544-4

https://www.jvascsurg.org/action/showPdf?pii=S0741-5214%2813%2900035-9

https://www.jvascsurg.org/action/showPdf?pii=S0741-5214%2814%2901806-0

https://tidsskriftet.no/en/2019/03/originalartikkel/steam-ablation-versus-stripping-great-saphenous-varicose-veins

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC8241548/pdf/avd-14-2-oa.21-00020.pdf

https://www.sicve.it/wp-content/uploads/2021/03/Flebologia-LG-SICVE-SIF.pdf

https://www.jvascsurg.org/action/showPdf?pii=S0741-5214%2815%2901834-0

 

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Leggi anche Vene visibili sulle gambe: cosa sono e come si eliminano efficacementeCapillari sulle gambe: scleroterapia o laser?

 

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Le vene visibili sulle gambe sono un inestetismo che crea imbarazzo nell'indossare una gonna o un vestito corto. Ecco come si possono eliminare.

Vene visibili sulle gambe: cosa sono e come si eliminano efficacemente

La presenza di vene visibili sulle gambe è uno degli inestetismi maggiormente sentiti dalle donne. Il motivo della sua importanza è che provoca un forte imbarazzo nello scoprire le gambe.
Nelle persone affette, infatti, indossare una gonna o un vestito corto diventano causa di disagio e scarsa accettazione del proprio corpo.

Le vene visibili sulle gambe sono l’espressione di una patologia cronica e degenerativa, l’insufficienza venosa. Questo significa che con il tempo tendono a dilatarsi progressivamente e ad aumentare di numero.
Nonostante si tratti di un problema così diffuso, però, il trattamento delle vene visibili sulle gambe è problematico.

Come mai?

La risposta è che le terapie possono essere dannose se non sono conosciute adeguatamente ed effettuate con cautela. Infatti, per migliorare la situazione estetica delle gambe bisogna fare attenzione a non creare altri inestetismi.

Proprio per questo alcune pazienti hanno poca fiducia nel trattamento. Le convinzioni più diffuse sono che “chiusa una vena ne spunta poi un’altra” e che “dopo il trattamento la situazione spesso peggiora”.

Sono vere queste convinzioni? Ci sono dei metodi efficaci per eliminare le vene visibili sulle gambe?

In questo articolo cercherò di rispondere nel modo più esauriente possibile. L’obiettivo è di darti tutte le informazioni necessarie per prendere una decisione sul trattamento dei tuoi inestetismi.

Vene visibili sulle gambe: cosa sono?

Le vene visibili sulle gambe sono delle vene particolarmente inestetiche che compaiono a livello degli arti inferiori. Si tratta di vasi sanguigni di colore blu scuro, più o meno dilatati e con decorso tortuoso. Proprio per queste loro caratteristiche saltano all’occhio e compromettono l’estetica delle gambe.

Dobbiamo ricordare, però, che avere delle vene visibili sulle gambe non sempre è patologico.
Vediamo allora quando la situazione è normale e quando invece è il caso di preoccuparsi e attivarsi per un trattamento.

Vene visibili sulle gambe: quando sono normali

Le vene sono dei vasi sanguigni che portano il sangue dai tessuti periferici al cuore. Il loro colore blu è del tutto fisiologico, perché il sangue che trasportano contiene poco ossigeno. Infatti, esse raccolgono le sostanze di scarto che provengono dai processi metabolici dei tessuti.

Le vene si formano nel circolo capillare sottocutaneo e diventano man mano più grosse confluendo tra di loro. Ne consegue che osservare in trasparenza delle vene visibili sulle gambe può essere del tutto normale, soprattutto in soggetti con la pelle chiara.

Quali caratteristiche hanno queste vene normali?
Sono appena visibili, hanno un colore blu-verde e non sono dilatate. Formano un reticolo appena percettibile sotto la cute della coscia e della gamba.
Si tratta di normali vie di drenaggio che solitamente non bisogna trattare.

Qualora venissero chiuse in maniera troppo aggressiva, infatti, la situazione potrebbe addirittura peggiorare. In questo caso spunterebbero in breve tempo dei capillari particolarmente sottili e inestetici, che prendono il nome di matting.

Lo strumento che toglie ogni dubbio sulla natura delle vene visibili sulle gambe è l’ecodoppler. In caso di normalità osserveremo un flusso di sangue diretto dal basso verso l’alto e dalla superficie alla profondità.

 

L'esame migliore per studiare le vene visibili sulle gambe è l'ecodoppler

L’esame di scelta per studiare le vene visibili sulle gambe è l’ecodoppler, che va eseguito in stazione eretta

 

Vene visibili sulle gambe: quando sono patologiche

Se le vene visibili sulle gambe diventano particolarmente scure, oppure si ingrossano e sporgono sulla cute, allora probabilmente sono patologiche.

A volte sono anche dolenti, soprattutto in alcune fasi del ciclo mestruale. Ancora, possono dare la sensazione di “scoppiare” improvvisamente, soprattutto nella stagione estiva.
Se invece assumono l’aspetto di un cordoncino duro e arrossato, allora il problema potrebbe essere una trombosi venosa superficiale.

Quando le vene visibili sulle gambe assumono queste caratteristiche siamo di fronte ad un problema estetico e vascolare ben preciso: si tratta delle cosiddette vene reticolari.

Vene visibili sulle gambe: caratteristiche

Cosa sono queste vene reticolari?
Il parametro che le definisce è la loro dimensione. Esse, infatti, non superano i 3 millimetri di diametro (per la precisione il loro diametro è compreso tra 1 e 3 millimetri). Quando invece superano i 3 millimetri si parla di vene varicose.

Le vene reticolari si trovano appena sotto il derma, quindi nel tessuto sottocutaneo superficiale. Sono generalmente piatte anche se a volte possono sporgere sulla cute. Questa sporgenza si osserva soprattutto nel cavo popliteo (la parte dietro il ginocchio).

 

Le vene reticolari compaiono negli stadi iniziali dell'insufficienza venosa

Le vene reticolari sono bluastre, non rilevate e spesso tortuose

 

In termini di frequenza, le vene reticolari compaiono più spesso nelle donne. Possono spuntare abbastanza rapidamente dopo una gravidanza o in seguito a una terapia ormonale, ma anche con l’avanzare dell’età. In alcune popolazioni si riscontrano addirittura nel 60% dei soggetti.
Si tratta, quindi, di un fenomeno piuttosto diffuso.

Spesso le vene reticolari si osservano in prossimità di altri piccoli vasi, più sottili e di colore rosso o violaceo. Si tratta dei ben noti capillari sulle gambe.

Vene reticolari e capillari possono assumere diverse configurazioni intersecandosi tra di loro. Saper riconoscere e distinguere queste strutture è importante, perché l’approccio terapeutico cambia.
Capiremo meglio questo concetto nel prossimo paragrafo.

Vene visibili sulle gambe: tipologie

Perché si formano le vene reticolari?
I motivi sono due: un flusso di sangue ostacolato oppure un flusso invertito. Vediamo in cosa consistono questi due fenomeni.

Flusso ostacolato

Come abbiamo detto, il normale flusso del sangue (chiamato anche deflusso) avviene dal basso verso l’alto e dalla superficie alla profondità. Ciò è reso possibile dalla presenza di piccole valvole all’interno delle vene. Le valvole impediscono al sangue di tornare indietro, cosa che naturalmente avverrebbe poiché esso scorre contro gravità.

Quando questo normale flusso è ostacolato, per i motivi che vedremo fra poco, la vena si dilata a causa della congestione che si crea al suo interno. A questo punto si forma la vena reticolare.

In queste situazioni la forma che i capillari assumono rispetto alla vena reticolare diventa simile a quella di un albero. Infatti, sembrerà di osservare un tronco (la vena reticolare) con i rami (i capillari) disposti attorno ad esso. Questa conformazione prende proprio il nome di “pino marittimo” oppure di “albero dritto”.

 

Le vene visibili sulle gambe possono assumere, assieme ai capillari, una forma ad albero

Un esempio di configurazione “a pino marittimo”

 

In presenza di un “albero dritto” bisogna fare molta attenzione nel trattare la vena reticolare.
Anche se il flusso è ostacolato, infatti, questa vena è pur sempre una via di drenaggio funzionante. La sua chiusura, quindi, causerebbe un ulteriore impedimento alla circolazione del sangue con lo spiacevole risultato di veder spuntare nuovi capillari.

Ecco spiegato il perché a volte si peggiora rapidamente dopo il trattamento.

Flusso invertito

Se il flusso di sangue non va nella direzione fisiologica significa che le valvole all’interno delle vene reticolari non stanno funzionando. Si parla in questo caso di reflusso. Il sangue dalla profondità arriva al compartimento superficiale e le vene reticolari diventano visibili.

In questi casi la conformazione che osserviamo è solitamente quella di un “albero rovesciato”. I capillari, infatti, si trovano sotto la vena reticolare, proprio come se l’albero fosse capovolto.

Poiché il flusso di sangue è invertito, in questo caso è la vena reticolare che alimenta la dilatazione dei capillari. Chiudendo la vena, quindi, è lecito aspettarsi anche una scomparsa dei capillari.

Vene visibili sulle gambe: cause

Abbiamo visto le due principali tipologie di vene visibili sulle gambe. Ma quali sono le cause che ne provocano la comparsa?
Vediamone alcune.

Cellulite

La cellulite è un problema ben noto alle donne perché causa vistose alterazioni del tessuto adiposo e della cute. Quest’ultima, ad esempio, assume il tipico aspetto “a buccia d’arancia” o “a materasso”.

 

La cellulite si associa a cattiva circolazione e spesso alla comparsa di vene visibili sulle gambe

La cellulite si associa alla presenza di cute “a buccia d’arancia” o “a materasso”

 

La cellulite, però, non è propriamente un accumulo di grasso né un semplice inestetismo.
Si tratta, infatti, di una vera e propria patologia degenerativa dei tessuti sottocutanei. Essa inizia con un accumulo di liquidi nel tessuto adiposo ed evolve verso la fibrosi attraverso un processo infiammatorio.
Per questo motivo viene definita con l’acronimo PEFS (pannicolopatia edemato-fibro-sclerotica).

Cosa c’entra la cellulite con le vene visibili sulle gambe?
Le alterazioni che caratterizzano la cellulite provocano un danno alla circolazione. A causa delle modificazioni indotte dalla malattia, infatti, il flusso di sangue dalla superficie alla profondità è ostacolato e le vene reticolari diventano visibili.

In queste situazioni osserveremo più spesso una conformazione “ad albero dritto”, tipicamente sul lato esterno della coscia (un’area particolarmente colpita dalla cellulite).

Anomalie posturali

La postura è molto importante per la circolazione del sangue. In presenza adi anomalie posturali gli angoli tra le articolazioni sono alterati e il sangue fa fatica a defluire. Il risultato è che le vene tenderanno a dilatarsi a monte dell’ostacolo, diventando visibili.

Qualche esempio?
Le sedi più colpite da questo problema sono la caviglia e il ginocchio.

Nel primo caso si osserva tipicamente una corona di capillari attorno al malleolo mediale (l’osso che sporge sulla parte interna della caviglia). Spesso il problema si associa a pronazione del piede ed errato appoggio plantare.

Nel caso delle ginocchia, riscontriamo tipicamente una tendenza all’iperestensione con formazione di vene visibili sulle gambe nel cavo popliteo.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un deflusso ostacolato.

Insufficienza venosa

Questa malattia degenerativa colpisce fino al 30% della popolazione femminile. Essa si manifesta con la perdita della funzione drenante delle vene, che si dilatano e diventano visibili. Si formano così le vene varicose.

Nel suo stadio iniziale l’insufficienza venosa si caratterizza proprio per la presenza di vene reticolari. All’interno di queste vene le valvole non funzionano e il sangue tende quindi a refluire, facendo comparire spesso anche i capillari.

In queste situazioni osserveremo più spesso delle disposizioni “ad albero rovesciato”, soprattutto nelle parti più declivi delle gambe. Per gravità, infatti, il sangue tende ad accumularsi verso il basso.

Terapia ormonale

Gli ormoni sessuali femminili sono noti per ridurre l’attività propulsiva delle vene favorendone la dilatazione. Questo è il motivo per cui le donne sono più soggette a questo problema.

L’assunzione di contraccettivi orali e le terapie ormonali in corso di menopausa o fecondazione assistita potenziano gli effetti negativi sulle vene. In questi casi aumenta la probabilità che esse si dilatino e si rendano visibili, con o senza sintomi associati.

Fattori ambientali

Anche alcuni stili di vita possono influire sulla circolazione.
Il problema principale è la stazione eretta prolungata, perché riduce l’azione di pompa che i muscoli del polpaccio esercitano sulle vene.

Per questo motivo le vene visibili sulle gambe sono più facilmente presenti in persone che lavorano molto in piedi. I casi tipici sono parrucchiere, bariste, oppure donne che lavorano nell’ambito delle pulizie.

Anche stare seduti per molte ore provoca lo stesso problema. Tutte le persone che svolgono mansioni d’ufficio, quindi, sono potenzialmente soggette a cattiva circolazione.

 

Passare molte ore in ufficio può provocare problemi di circolazione.

Il lavoro d’ufficio si associa spesso a cattiva circolazione

 

Se oltre ai fattori visti finora aggiungiamo l’esposizione a fonti di calore, il problema peggiora ulteriormente. Ecco che i soggetti più a rischio diventano cuochi e operai che lavorano in fabbriche dove ci sono alte temperature.

Vene visibili sulle gambe: perché trattarle?

La principale indicazione al trattamento delle vene visibili sulle gambe è di tipo estetico.

Trattandosi di una patologia degenerativa, però, anche l’aspetto preventivo ha la sua importanza. Queste vene, infatti, tenderanno per natura a peggiorare diventando più visibili e potenzialmente anche fastidiose.
Secondo alcuni autori, inoltre, il trattamento serve anche ad alleggerire il circolo superficiale e a migliorare l’emodinamica venosa.

Quali sono i passi da seguire per il trattamento?
Prima di tutto è necessario sottoporsi ad una visita specialistica con ecodoppler. La valutazione deve confermare che all’interno di queste vene c’è un reflusso, escludendo che si tratti di vasi normalmente funzionanti.

Inoltre, è fondamentale studiare interamente la circolazione per verificare che non ci siano problemi più grossi, ad esempio a livello della vena safena.

Solo a questo punto si potrà iniziare il trattamento, dopo aver valutato i pro e i contro e deciso la strategia più adatta.

Vene visibili sulle gambe: come trattarle?

Il trattamento delle vene reticolari può essere effettuato principalmente in due modi: scleroterapia e laser.
Ciascuno di questi trattamenti ha dei pro e dei contro. Ogni caso, quindi, va valutato a sé. Spesso, inoltre, essi vengono associati tra di loro.

Ciò che è importante capire e che non c’è una terapia che in assoluto è meglio di un’altra.

Spesso le pazienti chiedono un trattamento specifico perché non hanno avuto un buon risultato con l’altro. L’approccio corretto, però, sarebbe quello di valutare il caso e capire perché il trattamento effettuato non è andato bene. Magari era stato correttamente indicato ma eseguito in modo sbagliato.

Quando decidiamo di trattare le vene visibili sulle gambe bisogna anche e soprattutto valutare alcuni parametri, come il diametro della vena, la sua eventuale sporgenza sulla cute, il colore, la profondità e le eventuali controindicazioni alle terapie.

Vediamo ora nel dettaglio i pro e contro dei trattamenti.

Scleroterapia

La scleroterapia consiste nell’iniezione di un farmaco all’interno delle vene reticolari con lo scopo, appunto, di “sclerotizzarle”. Ciò provoca una risposta infiammatoria e successivamente una fibrosi a livello della vena trattata. Il risultato è la progressiva scomparsa dell’inestetismo.

I farmaci sclerosanti si dividono in vari gruppi.
Quelli più comunemente usati sono i detergenti (ad esempio il Polidocanolo e il Sodio Tetradecil Solfato) e gli irritanti chimici (la Glicerina Cromata). Essi possono essere utilizzati in forma liquida oppure schiumosa, e in diverse concentrazioni.

Questi parametri determinano l’intensità dell’azione sclerosante e vanno quindi adattati alle caratteristiche del vaso che volgiamo trattare.

 

La seduta di scleroterapia dei capillari non è dolorosa

Scleroterapia con schiuma sclerosante

Come si può intuire, la scleroterapia non è un trattamento banale perché ci sono tante variabili da considerare. Si tratta indubbiamente di una terapia vantaggiosa ma possono esserci anche dei potenziali problemi.
Cerchiamo di capire quando va bene e quando no.

Vantaggi

I vantaggi della scleroterapia sono molti.
Si tratta di un trattamento ambulatoriale, mini-invasivo e ripetibile a distanza di 3-4 settimane dalla precedente seduta. La paziente può tornare subito alle proprie attività dopo il trattamento, basterà evitare l’esposizione al sole e indossare una calza elastica.
I suoi costi, oltretutto, sono relativamente contenuti.

Inoltre, si tratta di una terapia non dolorosa. Al massimo si può sentire qualche minimo fastidio nella sede di puntura. Non è necessaria l’anestesia perché il trattamento è ben tollerato.

Per quanto riguarda le vene visibili sulle gambe, la scleroterapia è generalmente considerata il trattamento di scelta. Essendo vasi più grossi rispetto ai capillari, infatti, è più semplice pungerli che bruciarli dall’esterno, come avverrebbe nel caso del laser (lo vedremo più avanti).

Ci sono tuttavia da considerare anche alcuni potenziali rischi.

Svantaggi

Come abbiamo detto, nella scleroterapia l’infiammazione è necessaria per ottenere l’effetto desiderato. A volte, però, troppa infiammazione può rivelarsi uno svantaggio.

Perché?

Se una vena reticolare viene infiammata eccessivamente aumenta il rischio che compaiano delle macchie sulla pelle. Ciò è dovuto alla deposizione di sostanze liberate dal processo infiammatorio, che pigmentano la cute. Questo è vero soprattutto in zone delicate come il cavo popliteo e la caviglia, dove c’è meno tessuto sottocutaneo.

 

Macchie di pigmentazione dopo scleroterapia

Macchie di pigmentazione dopo scleroterapia

 

Questa complicanza può avvenire a causa di fattori individuali ma soprattutto quando si usano sclerosanti troppo potenti.

Le vene reticolari, peraltro, hanno una parete più grossa rispetto ai capillari. Questo significa che bisogna in linea teorica infiammarle di più per chiuderle e farle sparire.

Come possiamo notare, non è facile bilanciare la giusta infiammazione con il risultato desiderato. Per questo bisogna intervenire con più sedute di scleroterapia, partendo con concentrazioni molto basse per poi salire pian piano.

Quali sono gli altri svantaggi della scleroterapia?
Bisogna tenere presente possibili complicazioni, seppur rare. Si tratta di reazioni allergiche, necrosi, trombosi venose superficiali, ma anche comparsa di una fitta rete di capillari molto sottili (matting) in conseguenza di una infiammazione eccessiva o di un trattamento improprio.

Queste complicazioni, però, sono facilmente evitabili se si raccoglie una storia clinica accurata e si seguono le linee guida principali.

Laser

Il laser sfrutta l’emissione di energia sotto forma di luce per colpire e distruggere un tessuto biologico. L’obiettivo, naturalmente, è la scomparsa dell’inestetismo che vogliamo trattare.

Nel caso delle vene visibili sulle gambe, il bersaglio del laser è l’emoglobina del sangue. Quando essa viene colpita, l’energia termica si propaga fino a distruggere la parete del vaso, che è il vero obiettivo da raggiungere. Solo in questo modo, infatti, si otterrà la scomparsa della vena.

Il parametro più importante che caratterizza un laser è la lunghezza d’onda.
Si tratta di una grandezza specifica della luce che determina quanto in profondità il laser sarà in grado di arrivare e quale tessuto verrà colpito. A seconda dell’inestetismo che vogliamo trattare, quindi, dovremo scegliere una diversa lunghezza d’onda e quindi un diverso laser.

Ma quali sono le caratteristiche ideali che un laser dovrebbe avere per trattare le vene visibili sulle gambe?

Per prima cosa, la lunghezza d’onda dovrebbe essere sufficientemente selettiva per l’emoglobina del sangue. In questo modo l’energia luminosa verrebbe massimamente convertita in calore, surriscaldando il vaso e distruggendolo.

Secondo, il laser dovrebbe arrivare ad una profondità sufficiente per colpire il bersaglio.

Terzo, è importante che i tessuti che circondano il nostro target non vengano danneggiati.

Purtroppo, il laser ideale non esiste. Ognuno ha dei pro e dei contro e non è possibile soddisfare tutte e tre le caratteristiche in modo ottimale.
Vediamo quindi quali sono i laser che possiamo sfruttare per trattare le vene visibili sulle gambe.

NdYAG

Questo laser deve il suo acronimo alle iniziali degli elementi che lo compongono. Esso emette una luce che ha una lunghezza d’onda di 1064 nanometri.

Come funziona?
Il raggio laser fuoriesce da un manipolo esterno, che viene appoggiato sulla pelle. La luce deve quindi attraversare lo strato cutaneo per raggiungere la vena bersaglio e distruggerla.

Quali caratteristiche soddisfa questo laser?
La sua affinità per l’emoglobina del sangue è scarsa, mentre ha una sufficiente azione sulla mioglobina (una sostanza contenuta nella parete delle vene). Quindi, è potenzialmente in grado di distruggere efficacemente il bersaglio.

Anche la profondità che può raggiungere è buona. Può quindi arrivare fino alle vene reticolari, a patto che i parametri vengano impostati in un certo modo.
Tuttavia, non essendo selettivo per l’emoglobina, può danneggiare i tessuti circostanti. Infatti, la sua affinità per l’acqua è più alta rispetto ai laser con lunghezze d’onda minori, e l’acqua è contenuta in tutti i tessuti.

Il laser NdYAG, proprio per le caratteristiche che abbiamo visto, è un trattamento possibile per le vene visibili sulle gambe ma non ottimale. Inoltre, è doloroso e richiede un continuo raffreddamento della cute.

Esso, invece, è molto efficace nel trattamento di capillari particolarmente sottili (inferiori al millimetro), come nel caso del “matting”.
Ha un’ottima indicazione anche nei capillari resistenti alla scleroterapia, nei pazienti che hanno paura degli aghi e nel trattamento di aree particolarmente a rischio di pigmentazione.

Laser endo-perivenoso

Il laser endo-perivenoso ha una lunghezza d’onda di 808 nanometri e si chiama così proprio per le modalità con cui distrugge le vene reticolari. Il suo meccanismo d’azione, infatti, prevede che l’emissione avvenga posizionando la sorgente laser all’interno oppure attorno alla vena.
Capiremo tra poco come funziona questo innovativo trattamento.

Quali criteri soddisfa il laser endo-perivenoso?
La lunghezza d’onda di 808 nanometri è maggiormente assorbita dall’emoglobina rispetto a quanto avviene con il NdYAG. Inoltre, la sua specificità è ottima perché l’affinità per l’acqua è quattro volte inferiore rispetto a quella del suo rivale.
Il laser endo-perivenoso, quindi, non danneggia i tessuti circostanti.

 

Il laser endo-perivenoso disrtrugge le vene visibili sulle gambe

Il laser endo-perivenoso è un diodo con lunghezza d’onda di 808 nanometri

 

Il problema è piuttosto la profondità. Non potendo penetrare a sufficienza, infatti, questo laser non è in grado di raggiungere dall’esterno le vene visibili sulle gambe.

Come viene superato questo ostacolo?

Introducendo una sottile fibra sotto la cute e collegandola alla sorgente laser, sarà possibile avvicinarsi a sufficienza alla vena bersaglio e colpirla. A questo punto, sia che la fibra sia all’interno che attorno al vaso sanguigno, esso verrà distrutto senza intaccare minimamente gli altri tessuti.

Ma come funziona più nel dettaglio questo trattamento?
Vediamolo nello specifico.

Come funziona il laser endo-perivenoso

Per prima cosa di deve marcare la vena bersaglio con una penna rossa (un colore più scuro potrebbe essere assorbito dalla luce laser). Successivamente si effettuano piccole iniezioni di anestetico locale lungo il decorso del vaso.

A questo punto si può introdurre la fibra facendola passare attraverso la cute. Si tratta di uno strumento sottilissimo (0,2-0,3 millimetri di diametro) che non provoca alcun fastidio.

Impostati correttamente i parametri di emissione, la vena reticolare è pronta per essere trattata.

Cosa succede alla vena quando arriva il raggio laser?

Il primo effetto dell’impulso laser è una contrazione della vena reticolare. Ciò avviene perché questa lunghezza d’onda colpisce la mioglobina, una sostanza presente nelle cellule muscolari della parete venosa.
In una frazione di secondo, quindi, la vena si rimpicciolisce.

La contrazione della vena favorisce il secondo effetto del laser, che è anche il principale, ossia la coagulazione del sangue. Questo processo avviene più facilmente se la vena è piccola e se c’è uno scarso volume di sangue da vaporizzare.
Anche la velocità con cui l’operatore muove avanti e indietro la fibra influenza questa fase. Tale velocità dovrebbe essere di circa 3-5 millimetri al secondo con una potenza di circa 6 watt per 0,5-1 secondi.

In sintesi, maggiore è l’entità della coagulazione, più efficacemente la vena viene chiusa e scompare.

Terminato il trattamento sarà sufficiente applicare una crema lenitiva e una piccola medicazione per qualche giorno. Nei punti di ingresso della fibra sulla cute si formeranno delle piccole crosticine, destinate a sparire nell’arco di alcune settimane.

Dopo il trattamento bisogna naturalmente evitare l’esposizione al sole o a lampade abbronzanti, mentre non è necessario indossare la calza elastica.

Vantaggi

Quali sono, alla fine, i vantaggi di questo trattamento?

Il laser endo-perivenoso elimina il problema delle pigmentazioni cutanee che possiamo avere con la scleroterapia. Infatti, il suo meccanismo di distruzione basato sull’energia termica non provoca l’infiammazione e i coaguli che si osservano con gli sclerosanti.
Inoltre, la sua azione è istantanea e generalmente non richiede ulteriori sedute nella stessa zona.

L’altro vantaggio è che si possono trattare facilmente anche le vene reticolari molto tortuose. Non è necessario, infatti, che la fibra si trovi all’interno della vena perché questa venga distrutta. Anche dall’esterno, oppure perforando la vena dall’interno, il laser sarà ugualmente efficace.

 

La fibra laser inserita sotto la cute distrugge le vene visibili sulle gambe

La fibra laser inserita appena sotto la cute distrugge le vene reticolari sia dall’interno che dall’esterno

 

Il terzo vantaggio è che questo laser, come abbiamo visto, non intacca i tessuti circostanti.

Svantaggi

Il laser endo-perivenoso è particolarmente indicato se le vene visibili sulle gambe sono resistenti alla scleroterapia, oppure se c’è un maggior rischio di pigmentazione o se il paziente è allergico allo sclerosante.
Naturalmente, anche il laser può provocare delle complicazioni, ma se i parametri sono impostati correttamente si tratta di eventi eccezionali.

Quali sono gli svantaggi?

La selettività del laser endo-perivenoso per le vene reticolari di colore blu può rivelarsi svantaggiosa se abbiamo bisogno di trattare simultaneamente anche i capillari rossi.

Si tratta, inoltre, di un trattamento un po’ più costoso. Tuttavia, essendo efficace in una singola seduta il suo costo finale è equivalente a quello della scleroterapia, che richiede più sessioni di trattamento.

Conclusioni

Le vene visibili sulle gambe sono un problema estetico rilevante per le donne. Molte persone, pur cercando soluzioni a questo problema, hanno dubbi legati a ciò che si sente dire dire.

Questi sono i tre consigli finali che ritengo più importanti per risolvere questo inestetismo.

1 Non bisogna trascurare questa patologia per il solo fatto che è di tipo “estetico”.
Se è vero che i trattamenti hanno un costo, più si aspetta e più la situazione peggiora. Di conseguenza, saranno necessari più tempo e maggiori spese quando una migliore prevenzione avrebbe potuto essere efficace.

2 È meglio non ascoltare le esperienze delle amiche ma piuttosto informarsi adeguatamente.
Questo problema è complesso e si possono incontrare molti approcci differenti. Ci sono casi in cui i risultati non sono buoni, ma va capito il perché e non bisogna concludere che un trattamento sia in assoluto migliore di un altro.

3 Bisogna rivolgersi ad uno specialista, e dovrebbe essere la stessa persona ad effettuare la visita, l’ecodoppler e il trattamento.
Questa patologia non va gestita da figure diverse, perchè è sempre lo specialista che ha una visione d’insieme.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5817453/?report=printable

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6327418/pdf/etm-17-02-1106.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4301449/pdf/13063_2014_Article_2369.pdf

https://www.jvascsurg.org/action/showPdf?pii=S0741-5214%2805%2900331-9

O. Marangoni, L. Longo. Lasers in Phlebology. Vessel Photothermolysis – Photocoagulation – Photodynamic Detersion – Scanner Debridment Endo – Perivasal Laser Procedures, Edizioni Goliardiche.

 

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Leggi anche Scleroterapia dei capillari: come migliorare l’aspetto delle gambe e Capillari sulle gambe: scleroterapia o laser?

 

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La trombosi venosa superficiale si maniifesta con dolore lungo il decorso della vena interessata

Trombosi venosa superficiale: come riconoscerla e trattarla correttamente

La trombosi venosa superficiale è una patologia piuttosto temuta che si presenta soprattutto nella stagione estiva. Si tratta di un evento improvviso e non sempre prevedibile, che genera spesso preoccupazione anche solo per la presenza della parola “trombosi”.

In effetti, pur essendo benigna quando diagnosticata precocemente, la trombosi venosa superficiale può anche associarsi a complicanze gravi come le embiolie.
Per questo è opportuno riconoscerla il prima possibile e trattarla in maniera adeguata.

Come si riconosce una trombosi venosa superficiale? Qual è la terapia corretta?
In questo articolo ho riassunto le principali caratteristiche di questa patologia e le linee guida su come comportarsi.

Trombosi venosa superficiale: che cos’è?

La trombosi venosa superficiale si manifesta quando il sangue all’interno di una vena coagula spontaneamente. Questo fenomeno si verifica in una percentuale compresa fra il 3 e l’11% della popolazione generale, e le aree più colpite sono gli arti, soprattutto inferiori.

Si tratta di una patologia conosciuta anche con altri termini, come “flebite” o “tromboflebite superficiale”. Il termine “trombosi venosa superficiale”, però, è più corretto. Per semplicità, possiamo abbreviarlo con l’acronimo TVS.

Perché avviene questa coagulazione improvvisa del sangue? I motivi possono essere diversi. Tuttavia, ciò che contraddistingue la trombosi venosa superficiale è la sede della trombosi.
Le vene colpite, infatti, sono tutte superficiali. In particolare, esse si trovano nel tessuto sottocutaneo al di sopra della fascia che avvolge i muscoli. Questo differenzia la trombosi superficiale dalla trombosi venosa profonda (le vene profonde si trovano all’interno dei muscoli).

le vene colpite da trombosi venosa superficiale si trovano sopra la fascia muscolare

Trombosi venosa superficiale: meccanismi e cause

I meccanismi attraverso i quali si sviluppa una trombosi venosa superficiale sono principalmente tre. Essi sono il danno all’endotelio (lo strato di cellule vascolari a contatto diretto con il sangue), le alterazioni del flusso del sangue e le alterazioni della coagulazione del sangue.

Le cause della trombosi venosa superficiale invece sono molteplici, e agiscono attivando i meccanismi visti sopra.
Possiamo divederle in due gruppi. Da una parte ci sono le trombosi su vene varicose, dall’altra le trombosi su vene sane (non varicose).

Vene varicose

La presenza di vene varicose è la causa più frequente di trombosi venosa superficiale.
Cosa sono le vene varicose? Si tratta di vene dilatate e sporgenti che si sviluppano a livello delle gambe nelle persone che soffrono di insufficienza venosa. Questa malattia, legata a fattori genetici e ambientali e più frequente nelle donne, si caratterizza proprio per la perdita di funzione drenante delle vene.

Le vene varicose sono la causa più frequente di tromboflebite

In presenza di vene varicose la trombosi venosa superficiale ha una alta probabilità di verificarsi, soprattutto d’estate quando la temperatura esterna si alza. Il motivo è legato al rallentamento del flusso del sangue.
Infatti, le vene si comportano come dei tubi. Più fa caldo e più si dilatano, e più si dilatano meno velocemente il sangue scorre al loro interno. Se il sangue scorre lentamente, tende a coagulare di più.

La prevenzione della trombosi venosa superficiale è uno dei motivi per cui è opportuno trattare le vene varicose (come vedremo più avanti).

Vene non varicose

Se la trombosi venosa superficiale colpisce una vena non varicosa, le cause possono essere svariate. Vediamole una per una.

Neoplasie

L’associazione tra neoplasie e trombosi è nota da molto tempo. La forma più frequente di trombosi nei pazienti con neoplasia è proprio la trombosi venosa, che è presente nel 10-20% dei casi.

In che modo le neoplasie possono provocare una trombosi venosa superficiale?
Il primo fattore che entra in gioco è l’aumentata coagulabilità del sangue.
Le cellule tumorali, infatti, producono direttamente delle molecole che favoriscono la coagulazione del sangue. Questo processo chiama successivamente in causa anche le piastrine, che a loro volta amplificano il processo di trombosi.
Inoltre, il sangue tende a coagulare a causa di disidratazione, malnutrizione o altre condizioni critiche che si possono osservare nelle persone con gravi neoplasie.

Il secondo fattore è il rallentamento della circolazione sanguigna. I pazienti con neoplasia, infatti, possono restare a letto per molto tempo, per le condizioni critiche o perché hanno subito un intervento chirurgico. L’assenza di movimento delle gambe provoca ristagno di sangue e quindi maggiore tendenza alla coagulazione.

Il terzo fattore, cioè il danno endoteliale, può essere provocato direttamente dalle metastasi, ma anche dal posizionamento di cateteri per la chemioterapia oppure dai farmaci chemioterapici stessi.

Quali sono i tumori che più spesso provocano trombosi?
Vale la pena ricordare i tumori del pancreas, dello stomaco, dei polmoni, oltre che i tumori cerebrali, renali e ovarici.
I soggetti più a rischio sono le donne, specie se di età avanzata, e in generale i pazienti con maggiori complicazioni.

Trombofilia

Con il termine trombofilia intendiamo un insieme di condizioni genetiche e acquisite che provocano una maggiore propensione alla trombosi. Si tratta di una causa importante di trombosi venosa superficiale.
Quando è presente, la trombofilia aumenta anche il rischio che la trombosi si estenda alle vene profonde, o che si verifichi una seconda trombosi a distanza di breve tempo. Chiamiamo questo secondo fenomeno “recidiva”.

Soffermiamoci un po’ di più sulle condizioni genetiche che favoriscono la trombofilia.
Si tratta di mutazioni ereditarie dei geni coinvolti nella coagulazione del sangue. Molto semplicemente, le mutazioni di questi geni rendono più attivi i fattori della coagulazione nelle persone affette. Un esempio è la famosa mutazione del quinto fattore, chiamata fattore di Leiden.

Come si scopre se c’è una trombofilia ereditaria?
Bisogna fare dei test genetici, che sono piuttosto costosi. Le linee guida, però, raccomandano di non effettuare questi test di routine, ma solo se c’è il concreto sospetto di trombofilia.

Ma allora quando dobbiamo sospettare una trombofilia?
Se la trombosi venosa superficiale colpisce vene non varicose e abbiamo escluso la presenza di una neoplasia, la trombofilia è la prima causa da considerare. Lo stesso vale se la trombosi progredisce nonostante il paziente stia assumendo una terapia anticoagulante.

Anche quando la trombosi colpisce la safena e questa non mostra segni di insufficienza venosa, bisogna sospettare una trombofilia. Essa, infatti, è presente nel 50% di questi casi.

Infine, se la trombosi venosa superficiale colpisce pazienti di età inferiore ai 40-45 anni e con storia familiare di trombosi, va sempre sospettata una trombofilia.

In questi casi è opportuno procedere con i test.

Gravidanza

In gravidanza la donna ha un rischio di sviluppare una trombosi cinque volte maggiore rispetto alla donna non gravida. Questo accade per gli stessi meccanismi visti in precedenza, con alcune peculiarità legate proprio allo stato di gestazione.

Inoltre, in gravidanza si osserva spesso un peggioramento dell’insufficienza venosa e una maggiore dilatazione delle vene varicose. Questo favorisce a sua volta l’insorgenza di una trombosi venosa superficiale.

Per saperne di più sulla trombosi in gravidanza puoi cliccare qui.

Terapia ormonale

Gli ormoni sessuali femminili riducono il tono delle vene e fanno così diminuire la loro attività propulsiva. Di conseguenza, il sangue si muove più lentamente, favorendo l’innesco della trombosi.
Il rischio aumenta se la paziente fuma.

Per quanto riguarda la pillola anticoncezionale, essa è notoriamente un fattore di rischio per la trombosi venosa profonda, mentre non è chiaro se abbia un’associazione diretta con la trombosi venosa superficiale.

Morbo di Buerger

Questa grave patologia infiammatoria danneggia in maniera progressiva le arterie piccole e medie degli arti, provocando ostruzione, trombosi e spesso necessità di amputazione.
Colpisce pressoché esclusivamente i giovani maschi fumatori ed è diversa dall’aterosclerosi.

Tra le manifestazioni del morbo di Buerger, nel 16% dei casi si osservano trombosi venose superficiali progressive. La presenza di questa complicanza indica uno stato infiammatorio particolarmente grave. Inoltre, la presenza di trombosi venosa superficiale preclude la possibilità di operare questi pazienti con un bypass arterioso, di norma effettuato proprio utilizzando le vene sottocutanee.
La cessazione del fumo ha un sorprendente effetto di miglioramento clinico su questa patologia.

Sindromi immunologiche

La trombosi venosa superficiale si può osservare in alcune particolari sindromi immunologiche.

Sindrome di Trousseau

Questa sindrome clinica è caratterizzata da trombosi venose superficiali ricorrenti agli arti superiori e inferiori. Essa si associa tipicamente ad alcune neoplasie come tumori cerebrali, adenocarcinomi del tratto gastrointestinale (stomaco, colon e pancreas), adenocarcinomi polmonare, mammario, ovarico e prostatico. Sembra essere dovuta ad una iper-coagulabilità del sangue.

Sindrome di Mondor

Si tratta di una condizione rara che colpisce soprattutto le donne. Si manifesta con multiple trombosi venose superficiali delle vene del torace, soprattutto nelle regioni anteriore e posteriore.
Le cause non sono note. Sembra, tuttavia, che giochino un ruolo i traumi, l’uso di contraccettivi orali, e alcune forme di trombofilia.

Traumi o iniezione di sostanze irritanti

Il posizionamento di un catetere venoso per l’infusione di farmaci o un semplice prelievo del sangue possono a volte provocare una trombosi venosa superficiale. Questo avviene per un danno diretto alle cellule endoteliali delle vene.

Un prelievo di sangue può raramente causare una trombosi venosa superficiale

Il danno può essere dovuto all’azione meccanica del catetere o dell’ago oppure al danno chimico della sostanza iniettata. Quest’ultimo caso riguarda, ad esempio, i farmaci usati nella chemioterapia dei tumori e le sostanze stupefacenti iniettate per via endovenosa.

Trombosi venosa superficiale: conseguenze

I percoli principali legati a una trombosi venosa superficiale sono l’estensione della trombosi e le embolie. Il terzo problema sono le possibili recidive.

Estensione della trombosi

Consiste nella progressione del processo di coagulazione dalle vene superficiali a quelle profonde. Ciò avviene perché questi due compartimenti sono in comunicazione tra loro.
Le vene superficiali, infatti, confluiscono in quelle profonde in punti ben precisi come l’inguine e il cavo popliteo (la zona che sta dietro il ginocchio). Ci sono anche molte altre connessioni, realizzate attraverso alcune particolari vene chiamate vene perforanti. Esse attraversano i muscoli dalla superficie alla profondità connettendo i due sistemi venosi.

Tra i pazienti con trombosi venosa superficiale, una percentuale tra il 6 e il 40% ha anche una concomitante trombosi venosa profonda. Se la trombosi superficiale si verifica su vene non varicose, la probabilità di un simultaneo coinvolgimento alle vene profonde aumenta.
Le percentuali variano leggermente nei vari studi, ma ci fanno comunque capire che si tratta di una possibilità non rara.

Quando una trombosi venosa superficiale si estende alle vene profonde, il pericolo di embolie aumenta. Vediamo di cosa si tratta e perché è un rischio da evitare assolutamente.

Embolie

Si parla di embolia quando un frammento di sangue coagulato si stacca dalla sede di trombosi e segue la circolazione del sangue. Arrivato al cuore, l’embolo più probabilmente andrà a finire ai polmoni, ostruendo la circolazione e creando così un grave pericolo per la vita. Si tratta dell’embolia polmonare.

Anche se la trombosi è superficiale può verificarsi un'embolia
Se invece il cuore ha delle malformazioni, l’embolo potrebbe anche passare direttamente nelle arterie. A questo punto finirebbe per ostruire un vaso cerebrale oppure si bloccherebbe a livello degli arti. In questo caso si parla di embolia paradossa.

Secondo una recente metanalisi, nel 18% circa dei casi di trombosi venosa superficiale si verifica un’embolia polmonare.
Come abbiamo visto, il coinvolgimento di una vena profonda aumenta il rischio di embolie, ma questa complicanza può verificarsi anche se la trombosi resta in superficie. Ecco perché, come vedremo dopo, in caso di trombosi venosa superficiale è generalmente opportuno fare una terapia anticoagulante

Recidive

La trombosi venosa superficiale può recidivare se non ne viene identificata e rimossa la causa.
In caso di trombosi su vene varicose, la cura è l’intervento alle varici.
Se la trombosi si verifica su vene non varicose, il rischio di recidiva è di per sé già aumentato. Come abbiamo visto, vanno ricercate ed escluse le principali cause (neoplasie e trombofilia).

Trombosi venosa superficiale: come si riconosce?

La trombosi venosa superficiale è semplice da diagnosticare. Si manifesta con un indurimento e un arrossamento lungo il decorso della vena interessata, che di solito diventa anche dolente. Questo quadro clinico è dovuto all’infiammazione scatenata dalla coagulazione anomala del sangue.

In presenza di questi sintomi è indicato eseguire un ecocolordoppler venoso. Questo esame ha due funzioni: confermare o meno la presenza della trombosi ed escludere il coinvolgimento delle vene profonde. Si tratta di una procedura rapida, poco costosa e senza rischi per il paziente.

L'ecodoppler è l'esame fondamentale nel sospetto di trombosi

Che altre informazioni dà l’ecodoppler?
Consente di stimare l’estensione della trombosi e, in particolare, vedere se sono coinvolte le vene safene. Queste vene decorrono tra le vene di superficie e il piano muscolare, e sono strettamente collegate con le vene varicose. L’eventuale coinvolgimento delle vene safene, come vedremo più avanti, cambia l’approccio terapeutico.
L’ecodoppler permette inoltre di capire se la trombosi è recente o meno, a seconda di quanto il sangue coagulato riflette gli ultrasuoni.

Trombosi venosa superficiale: perché e come si cura?

I motivi per cui è opportuno trattare la trombosi venosa superficiale sono tre. Bisogna prevenire l’estensione della trombosi ed evitare le embolie, favorire per quanto possibile la riapertura della vena e alleviare i sintomi.
Questi effetti si ottengono rispettivamente con terapia anticoagulante, calza elastocompressiva e farmaci antinfiammatori e topici, rispettivamente.

Aggiungiamo un paio di considerazioni.
La terapia con antibiotici non è indicata in quanto la trombosi non è un fenomeno infettivo (purtroppo a volte si vede prescrivere ancora).
Quando la trombosi venosa superficiale è dovuta al posizionamento di un catetere per infusione, è indicato rimuoverlo.

Vedremo poi quando è indicato il trattamento chirurgico nei casi di trombosi venosa superficiale su vene varicose.

Terapia anticoagulante

Questa terapia sfrutta la capacità di alcuni farmaci di bloccare selettivamente la coagulazione del sangue. Ci sono le eparine per via sottocutanea e gli anticoagulanti orali.

Eparine

Le eparine per via sottocutanea rappresentano il principale trattamento per la trombosi venosa superficiale. Si tratta di sostanze anticoagulanti che si somministrano attraverso piccole punture appena sotto la cute, di solito sulla pancia. Ce ne sono di diverso tipo, e vari studi ne hanno indagato gli effetti in relazione al dosaggio.

L'eparina a basso peso molecolare è il trattamento di scelta per la TVS
Da notare che si misurano in unità internazionali (UI) e si possono somministrare una o due volte al giorno.

Eparina non frazionata – si tratta della molecola di eparina più grezza.
Uno studio ne ha esaminato l’effetto su un piccolo campione di soggetti con trombosi venosa superficiale. Si è osservata una minore frequenza di embolie polmonari nei casi trattati con alto dosaggio (12500 UI due volte al giorno) rispetto a quelli trattati con basso dosaggio (5000 UI due volte al giorno).
Non è comunque il farmaco di scelta per la trombosi venosa superficiale.

Enoxaparina – questa molecola fa parte delle eparine a basso peso molecolare.
Gli studi hanno mostrato che dosi basse ed elevate danno lo stesso risultato in termini di diminuzione di embolia polmonare, recidive ed estensione della trombosi.
Quindi, è sufficiente una dose profilattica di Enoxaparina (4000 UI al giorno) per 4 settimane per ottenere una protezione efficace.

Fundaparinux – anche questa molecola, al dosaggio di 2,5 mg al giorno, ha mostrato riduzione significativa delle embolie e dell’estensione della trombosi, oltre che miglioramento dei sintomi.
Il confronto è stato fatto con il placebo in un ampio studio che ha esaminato oltre 3000 pazienti con trombosi venosa superficiale.

Si tratta, come ribadiremo più avanti, del farmaco di scelta per il trattamento della trombosi venosa superficiale nei pazienti a basso rischio embolico.
Infatti, le linee guida del 2012 redatte dall’American College of Chest Physicians consigliano il Fundaparinux (2,5 mg al giorno per 45 giorni) piuttosto dell’Enoxaparina in caso di trombosi venosa superficiale degli arti inferiori, se estesa per almeno 5 cm.

Anticoagulanti orali

Sono farmaci che si assumono per bocca, solitamente quando dobbiamo trattare la trombosi venosa profonda.
Esistono di due tipi di anticoagulanti orali. Ci sono i dicumarolici e i farmaci di nuova generazione, chiamati DOAC’s.

Dicumarolici – sono i vecchi farmaci anticoagulanti che richiedono ripetuti prelievi del sangue per controllarne il corretto dosaggio.

DOAC’s (Direct Oral Anti Coagulants) – si tratta di farmaci di ultima generazione che non hanno bisogno di alcun prelievo ematico. Anche in questo caso, sono comunemente usati nella trombosi venosa profonda.

Si possono usare questi farmaci nella trombosi venosa superficiale? La risposta è no. L’unica eccezione esiste quando la trombosi giunge a ridosso delle vene profonde, di solito a 3 cm o meno. In questo caso la trombosi va considerata a tutti gli effetti come se fosse una trombosi venosa profonda.

Negli altri casi, l’uso degli anticoagulanti orali è oggetto di studio per quanto riguarda i farmaci di ultima generazione.
Una recente metanalisi ha mostrato efficacia dei DOAC’s nella prevenzione dell’embolia polmonare e nella diminuzione delle recidive in pazienti con trombosi venosa superficiale. In questo studio essi sono stati confrontati con i Dicumarolici, e hanno anche dimostrato minore rischio di sanguinamento (un problema comune a molti anticoagulanti).

Un altro studio ha comparato un appartenente alla famiglia dei DOAC’s, il Rivaroxaban al dosaggio di 10 mg al giorno, con il Fundaparinux da 2,5 mg. Sono stati trattati casi di trombosi venosa superficiale sotto il ginocchio estese per almeno 5 cm.
Si sono rilevate similari efficacia e sicurezza tra i due farmaci. Tuttavia, il Rivaroxaban non è attualmente raccomandato nel trattamento della trombosi venosa superficiale.

Calza elastica

La calza elastica è un dispositivo medico che esercita una compressione esterna sull’arto, favorendo lo scioglimento della trombosi e la remissione dei sintomi.
In caso di trombosi venosa superficiale, le linee-guida consigliano di indossarla associandola però alla terapia anticoagulante. Infatti, se usata in assenza di trattamento farmacologico non dà gli stessi risultati.

Che tipo di calza elastica bisogna usare?
Ci sono diversi tipi di calza elastica e ciascuno ha le sue funzioni (ne ho parlato qui). In caso di trombosi venosa superficiale bisogna usare una calza elastica terapeutica a compressione graduata.

In caso di trombosi venosa superficiale va applicata una calza elastica

Cosa significano queste due definizioni?
La tipologia d calza deve esercitare una pressione ben precisa sull’arto (terapeutica) e questa pressione deve decrescere dalla caviglia alla coscia (compressione graduata). Negli studi analizzati essa è stata applicata per tre settimane.

Eparinoidi topici

Sono farmaci che si applicano sotto forma di pomate direttamente nella zona colpita da trombosi. Agiscono riducendo l’infiammazione attorno alla vena e alleviando i sintomi.
Non c’è evidenza che riducano il rischio di embolie o di trombosi recidive.

FANS

Sono i farmaci antinfiammatori non steroidei che si usano comunemente per il dolore.
Alcuni studi hanno mostrato che essi riducono sia l’estensione della trombosi sia la frequenza di recidive se comparati con il placebo, ma in misura minore rispetto alle eparine. Ciò è dovuto alla loro azione sulle piastrine, che sotto il loro effetto tendono ad attivarsi di meno mantenendo il sangue un po’ più fluido.

I FANS sono indicati se la trombosi venosa superficiale è poco estesa (meno di 5 cm) e se c’è un basso rischio trombo-embolico.

Terapia chirurgica

Può servire un intervento chirurgico in caso di trombosi venosa superficiale?
Se le vene colpite sono non varicose, la chirurgia è sconsigliata perché non risolverebbe il problema.
In queste situazioni, infatti, è indicata la terapia anticoagulante. Questo vale a maggior ragione in presenza di concomitante trombosi venosa profonda o embolia polmonare.

Se le vene sono varicose, il discorso è diverso.
Dobbiamo distinguere la fase acuta della trombosi dalla fase stabilizzata.

Fase acuta

Quando la trombosi è in fase acuta, cioè si è appena verificata, l’obiettivo dell’intervento chirurgico dovrebbe essere quello di alleviare i sintomi e bloccare la progressione del trombo nelle vene profonde. Per questo sono state studiate diverse procedure chirurgiche per capire se portassero un reale beneficio.

Gli studi in letteratura, a tale proposito, sono molteplici.
I risultati hanno mostrato che, in effetti, nella fase acuta la chirurgia sembra alleviare i sintomi e l’estensione della trombosi venosa superficiale. Il livello di evidenza, però, è risultato basso.
D’altra parte, in termini di coinvolgimento delle vene profonde ed embolia, non sembra esserci un reale vantaggio della chirurgia rispetto alla terapia anticoagulante.
Dobbiamo anche tenere presente che effettuare un intervento nella fase acuta potrebbe essere addirittura controproducente. Alcuni studi, infatti, mostrano che il trauma chirurgico attiverebbe paradossalmente la coagulazione del sangue provocando embolie.

In conclusione, nella fase acuta della trombosi venosa superficiale il trattamento che generalmente si consiglia è la terapia anticoagulante.

C’è però una situazione particolare, che abbiamo in parte visto prima.
Essa si verifica quando la trombosi venosa superficiale coinvolge le vene safene giungendo a ridosso della loro confluenza con le vene profonde. In questo caso, il trombo potrebbe estendersi facilmente al sistema venoso profondo e l’interruzione chirurgica della vena colpita potrebbe essere utile ad evitarlo.

Anche questa situazione è stata molto dibattuta in letteratura.
Secondo le attuali linee-guida italiane, sia la legatura/asportazione chirurgica della vena sia la terapia anticoagulante sono in questi casi soluzioni applicabili. Infatti, non ci sono studi che abbiano chiaramente dimostrato la superiorità di una terapia rispetto all’altra.
Nella pratica clinica, tuttavia, anche in questa condizione si tende a preferire la terapia anticoagulante. Essa, come abbiamo visto, va somministrata ad alto dosaggio come si fa nella trombosi venosa profonda.

Fase stabilizzata

Dopo la che la trombosi venosa superficiale si è stabilizzata è opportuno intervenire chirurgicamente asportando le vene varicose. In questo modo si prevengono efficacemente le trombosi recidive.

L’intervento può consistere nella chiusura di un breve tratto di safena, ad esempio con il laser. Questa procedura si può associare o meno alla rimozione delle varici attraverso piccolissime incisioni (flebectomia ambulatoriale).

Trombosi venosa superficiale: indicazioni terapeutiche

Riassumiamo quindi le principali indicazioni terapeutiche in caso di trombosi venosa superficiale.

1. Trombosi poco estesa (meno di 5 centimetri), localizzata sotto il ginocchio e lontana da vene perforanti e safene: la terapia si può limitare a pomate eparinoidi, FANS e utilizzo di calza elastica.

2. Trombosi estesa per oltre 5 centimetri, o coinvolgente le vene safene o ancora in presenza di un maggiore rischio di embolie per qualsivoglia motivo: opportuna terapia anticoagulante (Fundaparinux 2,5 mg al giorno per 45 giorni).

3. Trombosi che giunge a ridosso delle vene profonde (3 cm o meno): terapia anticoagulante a dosaggio alto per almeno 3 mesi.

Conclusioni

La trombosi venosa superficiale è una patologia da non sottovalutare.
Abbiamo visto, infatti, che può complicarsi con una embolia polmonare, anche se con minore probabilità rispetto alla trombosi venosa profonda.

In presenza di sintomi, soprattutto se si è soggetti predisposti, bisogna effettuare quanto prima un ecodoppler venoso. L’esame serve a confermare la diagnosi e a ottenere informazioni importanti per scegliere la terapia idonea.

Questa patologia può anche essere la spia di problemi gravi come la trombofilia o un tumore. D’altra parte, una volta trattata la trombosi, è opportuno eliminare le cause che l’hanno provocata per non incorrere in una recidiva.

Fonti

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https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/28613608/

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1111/jth.12986

Astrazeneca e trombosi: cosa sappiamo?

Vaccino AstraZeneca e trombosi: cosa sappiamo?

La sospensione temporanea del vaccino AstraZeneca a seguito di sporadici episodi di trombosi ha provocato una forte preoccupazione nella popolazione del nostro paese.
Questi eventi hanno indotto gli organi competenti a interrompere le somministrazioni e far luce su quanto accaduto, per poi dare nuovamente il via libera al vaccino dopo le verifiche del caso.

Ciononostante, molte persone in attesa della vaccinazione sono preoccupate e chi ha fattori di rischio per trombosi non sa come comportarsi.
Inoltre, i media forniscono informazioni spesso imprecise, contribuendo ad aumentare la confusione tra le persone.

Esiste un maggior rischio legato al vaccino nelle persone che hanno problemi di trombosi? In questi casi la vaccinazione è consigliata oppure no?

Per rispondere a queste domande ho analizzato lo stato attuale delle conoscenze su SARS-CoV-2, vaccino Astrazeneca e trombosi, e le principali indicazioni in materia fornite dagli organi competenti.

Covid-19 e problemi di coagulazione

Il virus SARS-CoV-2, responsabile della pandemia Covid-19, può provocare una grave forma di insufficienza respiratoria, con esito anche fatale.
Sin dalle prime fasi dell’epidemia, però, si è capito che questa malattia provoca soprattutto una disfunzione dell’endotelio dei vasi sanguigni.

Cos’è l’endotelio? Si tratta di un tessuto vascolare che si trova direttamente a contatto con il sangue e le cui cellule svolgono importanti funzioni, come la regolazione dell’infiammazione e della coagulazione ematica.

Il Covid-19 colpisce l'endotelio dei vasi sanguigni

Il virus SARS-CoV-2 sfrutta un particolare enzima dei nostri tessuti, chiamato ACE-2, attraverso il quale entra nelle cellule bersaglio e le infetta.
Le cellule più ricche di questa molecola sono quelle dell’endotelio e del cuore, e questo spiegherebbe perché nei pazienti colpiti da Covid-19 si osserva un’estesa disfunzione vascolare, più di quanto accada nei pazienti con virus dell’influenza.

Come si manifesta questo danno vascolare?
Quando il virus infetta le cellule, queste rispondono producendo molecole-segnale che attivano la risposta infiammatoria e la coagulazione del sangue, con lo scopo di combattere l’infezione.

Generalmente questa risposta è auto-limitante, ma nel caso del Covid-19, a causa delle particolari caratteristiche del virus, essa ha un’intensità maggiore.
A dimostrazione di questo, i pazienti affetti da forme gravi di Covid-19 presentano nel sangue alti livelli di fibrinogeno, FDP e D-dimero, tutte molecole coinvolte nel processo coagulativo.

La conseguenza di questa diffusa alterazione dei vasi sanguigni può essere una trombosi, che colpisce arterie, vene e capillari e che potenzialmente danneggia gli organi interni come il cuore e i polmoni.
Tra l’altro, si è osservato che contrarre la malattia costituisce un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di ictus cerebrale.

Covid-19 e trombosi venosa

Cosa succede invece nelle vene delle gambe?
Nelle autopsie dei pazienti deceduti per Covid-19 si sono osservate, oltre a trombosi dei vasi sanguigni polmonari, anche segni di trombosi venosa profonda degli arti inferiori.
Questa patologia compare generalmente in acuto a seguito di gravi traumi o fratture, o ancora dopo interventi chirurgici, neoplasie o prolungata immobilizzazione a letto.

Il rischio principale di una trombosi venosa profonda consiste nel distacco di un coagulo, che seguendo la circolazione del sangue finisce per ostruire i vasi polmonari.
La conseguenza di questo fenomeno è l’embolia polmonare, una grave sindrome clinica caratterizzata da difficoltà a respirare che può essere anche fatale.

Gli studi di cui disponiamo ad oggi mostrano che, nei pazienti ospedalizzati per Covid-19, c’è un’aumentata incidenza di trombosi venosa profonda ed embolia polmonare.
La percentuale arriva al 20-25% dei casi e riguarda maggiormente i pazienti in terapia intensiva o comunque in condizioni gravi, come documentato da un recente studio olandese.
Inoltre, un dato particolarmente significativo è che molti pazienti hanno sviluppato trombosi venose nonostante la profilassi con somministrazione di eparina.

Ma siamo certi che nei pazienti gravi la causa della trombosi sia proprio il Covid-19?
Di certo è vero che uno stato settico, cioè una risposta infiammatoria generalizzata dell’organismo, favorisce in generale i fenomeni di coagulazione, ma si è anche osservato un maggiore numero di trombosi nei pazienti infettati da Covid-19 rispetto ad altri di pari gravità ma con altre cause di sepsi.
Per quanto riguarda l’incidenza di trombosi venosa dopo la dimissione dall’ospedale, non ci sono al momento dati sufficienti.

Ciò che non conosciamo ancora è l’incidenza della trombosi venosa nella popolazione globale di pazienti colpiti da Covid-19 (la conosciamo solo tra gli ospedalizzati), così come non è chiaro quali siano, tra i pazienti positivi, quelli maggiormente a rischio di trombosi venosa.

Le incognite sono tante, ma sembra esserci un chiaro legame tra infezione da SARS-CoV-2 e fenomeni di eccessiva coagulazione del sangue.
Per questo motivo si è iniziato precocemente a trattare i pazienti più gravi con la terapia anticoagulante.

Vaccino AstraZeneca: come funziona

Il vaccino AstraZeneca è un vaccino monovalente composto da un Adenovirus ricombinante dello scimpanzè, reso incapace di replicarsi, che funge da vettore per la sintesi della glicoproteina S del SARS-Cov-2.
Detta in termini più semplici, dentro il vaccino c’è un virus animale, inattivo, che trasporta un pezzo del SARS-Cov-2 sotto forma di informazione genetica, con lo scopo di “presentarlo” al nostro organismo affinché questo attivi una risposta immunitaria.

Il vaccino astrazeneca non è associato ad aumentato rischio di trombosi globale

Infatti, una volta somministrato il vaccino, l’espressione della proteina virale stimola una risposta immunologica sia anticorpale che cellulare, che servirà a proteggere l’organismo dall’infezione.

Nel nostro paese il vaccino AstraZeneca viene somministrato ai soggetti di età superiore ai 18 anni in due sessioni distinte, intervallate tra loro da un periodo che varia da 4 a 12 settimane.
Gli eccipienti contenuti nella preparazione sono una quantità minima di sodio e di etanolo.

La durata della protezione di questo vaccino non è nota, in quanto sono ancora in corso studi volti ad accertare questo dato.

Vaccino AstraZeneca: i casi di trombosi

Il 18 marzo 2021 il comitato di sicurezza dell’EMA (European Medicines Agency), denominato PRAC, si è riunito in una sessione straordinaria per far luce su alcuni rari casi di trombosi verificatisi a seguito della somministrazione del vaccino AstraZeneca.
Per analizzare efficacemente quanto avvenuto, i membri di questo comitato si sono interfacciati con esperti di malattie del sangue e istituzioni sanitarie, come l’MHRA del Regno Unito.

Cosa è accaduto?
Alla data del 16 marzo, circa 20 milioni di persone avevano ricevuto il vaccino AstraZeneca in un’area geografica comprendente il Regno Unito e l’EEA (Economic European Area).

All’interno di questa popolazione si sono osservati 7 casi di CID (coagulazione intravasale disseminata) e 18 casi di trombosi del seno cavernoso cerebrale (chiamata in inglese CVST), per un totale di 9 decessi.
Queste complicanze sono insorte all’interno dei 14 giorni successivi alla vaccinazione (prevalentemente dopo i primi 3 giorni), e i pazienti colpiti erano per lo più di sesso femminile e di età inferiore ai 55 anni.

In cosa consistono queste forme di trombosi?
Di seguito le analizzeremo nel dettaglio per capire come si differenziano dalle trombosi legate a problemi venosi delle gambe.

CID

La Coagulazione Intravasale Disseminata è una grave sindrome clinica caratterizzata da una attivazione generalizzata della coagulazione del sangue, che determina una trombosi diffusa dei vasi sanguigni di piccolo e medio calibro.
Le conseguenze di questa patologia possono essere una disfunzione multi-organo e un sanguinamento massivo, causato dal consumo eccessivo dei fattori della coagulazione.

Quali sono le cause?
Questa sindrome può verificarsi in seguito a gravi infezioni, neoplasie solide o tumori delle cellule del sangue, o ancora traumi, rottura di aneurismi o malattie del fegato.

In caso di gravi infezioni, ad esempio, la risposta infiammatoria dell’organismo attiva massivamente la coagulazione del sangue attraverso le sue molecole segnale, provocando sepsi e disfunzione dei vari organi.
A seguito di neoplasie come le leucemie, al contrario, viene attivato maggiormente il sistema opposto a quello coagulativo, che è responsabile dello scioglimento dei coaguli.
In questo caso, il sintomo prevalente sarà il sanguinamento incontrollato.

CVST

La Trombosi del Seno Cavernoso Cerebrale è una rara causa di ictus cerebrale, causata dalla coagulazione improvvisa del sangue all’interno di una importante vena situata nel cranio e deputata a raccogliere il sangue dal cervello.

Ogni anno si verificano da 2 a 5 casi di CVST per ogni milione di persone, e si tratta per lo più di donne di età relativamente giovane.
I sintomi di esordio di questa grave sindrome sono intensa cefalea, convulsioni e problemi neurologici come paralisi o perdita della sensibilità agli arti.

Da cosa è provocata?
Le cause non sono note, ma la CVST sembra correlarsi a preesistenti problemi di coagulazione del sangue, traumi, utilizzo di pillola anticoncezionale o presenza di tumori.
Un recente studio eseguito negli ospedali della città di New York, inoltre, ha analizzato 3 casi di CVST riscontrati in pazienti affetti da Covid-19.
Seppur con caratteristiche diverse (erano colpiti anche maschi), si ipotizza che l’infezione da SARS-CoV-2 possa rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo di questa grave patologia.

Vaccino AstraZeneca e trombosi: le attuali indicazioni

La riunione straordinaria del PRAC ha messo in luce che i benefici del vaccino AstraZeneca superano di gran lunga i rischi legati all’infezione da SARS-CoV-2, e pertanto la campagna vaccinale ha ripreso il suo iter.

Il vaccino non risulta essere associato ad un aumento globale del rischio di trombosi ed embolie nei soggetti riceventi, né c’è evidenza di problemi relativi a particolari lotti di farmaco o siti di produzione malfunzionanti.
Questo significa che, al momento, non c’è alcuna evidenza che soggetti a rischio di trombosi venosa (pregresse trombosi venose, mutazioni genetiche predisponenti, assunzione di pillola anticoncezionale, storia di flebiti e vene varicose) siano a maggior rischio di tali eventi se si vaccinano.

Infatti, il numero di casi di trombosi ed embolia verificatisi dopo il vaccino è risultato addirittura inferiore a quello atteso nella popolazione generale; rimane solamente, a giudizio del PRAC, qualche preoccupazione nei pazienti più giovani.

Sempre in base a quanto appurato dal comitato, il vaccino potrebbe essere associato a casi estremamente rari di CID con bassi livelli di piastrine, con o senza episodi di sanguinamento, e di CVST.
Infatti, per quanto riguarda queste particolari forme di trombosi, il numero di casi riscontrati dopo la vaccinazione è risultato superiore a quello atteso nella popolazione generale.
Il nesso causale non è provato, ma non si può al momento escludere con certezza.

Il 19 marzo 2021 l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha preso atto della riunione straordinaria del PRAC e ha emesso a sua volta una circolare, che di fatto ha permesso di riprendere la vaccinazione con AstraZeneca nel territorio nazionale.

Il 22 marzo, infine, il NIH (National Institutes of Health) ha riportato i risultati provenienti da AstraZeneca e relativi ad un ampio studio condotto negli Stati Uniti e in Sud America, che confermerebbe l’efficacia protettiva del vaccino nei confronti della malattia Covid-19, ribadendone la buona tollerabilità.
In particolare, lo studio è stato analizzato dal DSMB, un organo americano indipendente che monitora dati e sicurezza degli studi scientifici, con un focus specifico anche sui fenomeni di trombosi.
Il risultato emerso è che, in questo ampio studio, non c’è evidenza di un aumento del rischio generico di trombosi e di sviluppo di CVST nei pazienti che hanno ricevuto il vaccino AstraZeneca.

A onor del vero, il 23 marzo lo stesso DSMB ha espresso preoccupazione relativamente alla presenza, all’interno dello studio, di dati obsoleti che potrebbero aver inficiato le conclusioni sull’efficacia del vaccino, invitando l’azienda produttrice a fare chiarezza in merito.
La situazione è in continua evoluzione, e allo stato attuale il vaccino AstraZeneca è in attesa di approvazione da parte della FDA per essere utilizzato negli Stati Uniti.

Conclusioni

L’infezione da SARS-CoV-2 si associa ad un’aumentata tendenza alla trombosi e può risultare particolarmente pericolosa in pazienti con fattori di rischio predisponenti.
Di conseguenza, le persone che hanno avuto trombosi venose in passato o che hanno familiarità, mutazioni geniche predisponenti o ancora soffrono di flebiti ricorrenti o problemi venosi, sono maggiormente destinate a beneficiare della vaccinazione.

Bisogna ricordare, poi, che il termine “trombosi” è piuttosto generico. Infatti, la CID e la trombosi del seno cavernoso cerebrale sono sindromi trombotiche rare, completamente diverse dalle trombosi venose delle gambe sia per cause e caratteristiche cliniche che per tipologia di soggetti colpiti.
Leggendo i giornali, però, capita di imbattersi in titoli fuorvianti, nei quali il termine “trombosi” viene utilizzato in maniera non precisa. Questo aumenta lo stato di allarme tra i non addetti ai lavori, che spesso non hanno gli strumenti per capire realmente di cosa si stia parlando e per cercare le giuste fonti di informazione.

In conclusione, chi sa di essere a rischio di trombosi è in pericolo maggiore se sviluppa la malattia piuttosto che se si sottopone alla vaccinazione. Secondo i dati più recenti, il vaccino AstraZeneca sembra essere efficace e ben tollerato, e il nesso causale con queste rare forme di trombosi non è certo, pur essendo possibile.
Sicuramente serviranno ulteriori studi per verificare la realtà dei fatti.

Per quanto riguarda eventuali sintomi di allarme, secondo il comunicato dell’EMA bisogna richiedere assistenza medica urgente se dopo la vaccinazione compaiono mancanza di respiro, dolore toracico, gonfiore, dolore o ipotermia improvvisi ad un arto, visione offuscata o grave cefalea, sanguinamento persistente, comparsa di multipli ematomi o tumefazioni rosso-violacee sotto la cute.

Fonti

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https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4267589/pdf/40560_2013_Article_26.pdf

https://www.strokejournal.org/action/showPdf?pii=S1052-3057%2820%2930852-1

https://www.nih.gov/news-events/news-releases/investigational-astrazeneca-vaccine-prevents-covid-19

https://www.nih.gov/news-events/news-releases/niaid-statement-astrazeneca-vaccine

Una calza elastica correttamente prescritta può dare molto sollievo

Come scegliere, indossare e utilizzare la calza elastica in modo efficace

La calza elastica è un dispositivo medico che si utilizza per migliorare stati di cattiva circolazione e ristagno di liquidi nelle gambe, oltre che per alleviare sintomi come dolore e pesantezza.

Spesso è difficile orientarsi nella scelta della calza elastica più corretta, sia per le tante e diverse tipologie di prodotto che si trovano in commercio sia per la scarsa cultura presente su questo tema tra i sanitari.

Infatti, la calza elastica rappresenta un insieme di prodotti molto diversi tra loro, che si usano per problematiche differenti.
Spesso prescritta erroneamente, la calza elastica provoca alle volte più fastidio che beneficio, contribuendo così alla sua scarsa diffusione tra le persone che avrebbero bisogno di usarla.

In questo articolo ti spiegherò le differenze tra i vari tipi di calza elastica e ti aiuterò ad orientarti nella scelta del prodotto più adatto al tuo problema.

Cos’è la calza elastica

La calza elastica è un tutore dalla forma variabile che si applica sugli arti inferiori per supportare il sistema venoso e linfatico.
La sua funzione è di esercitare una pressione esterna sulle gambe, con lo scopo di migliorare il flusso del sangue e il drenaggio dei liquidi.

Come si ottiene questa pressione?
La calza elastica deve questa proprietà alla sua particolare fabbricazione, nella quale il tessuto viene costruito intrecciando due fili diversi.
La maglia, che costituisce l’intelaiatura principale, fornisce spessore e rigidità alla calza, mentre il filo di trama determina la pressione che il tutore eserciterà sull’arto compresso.
La calza elastica, quindi, avrà caratteristiche diverse in base ai materiali che la compongono e alla tecnica di tessitura.

La calza elastica è fabbricata con maglia e filo di trama

Una volta indossata, la calza elastica si adatta all’arto grazie all’allungamento dei suoi filati. Questo allungamento crea sul tessuto una tensione, che per mantenersi costante determinerà pressioni diverse nei vari segmenti della gamba e della coscia (questo avviene in relazione ad un importante principio fisico).
Cosa significa? A parità di tensione, dove il diametro è minore, come ad esempio alla caviglia, la pressione sarà maggiore, mentre dove il diametro è maggiore, come alla coscia, la pressione diminuirà.

Come funziona la calza elastica

Il funzionamento della calza elastica si spiega in base a due parametri importanti, cioè il dosaggio e la rigidità (meglio conosciuta con il termine inglese “stiffness”).
Queste grandezze differenziano le calze tra loro e indicano qual è il prodotto più adatto per lo specifico problema che vogliamo risolvere.

Dosaggio

Il dosaggio indica quanta pressione la calza produce sull’arto in cui viene indossata.
Per convenzione, il dosaggio di una calza elastica si riferisce alla pressione esercitata alla caviglia, e si misura in millimetri di mercurio (mmHg, la stessa unità di misura della pressione del sangue).

Il dosaggio della calza deve mantenersi costante durante la giornata, soprattutto non calare verso sera quando le gambe tendono gonfiarsi o manifestano sintomi come dolore e pesantezza.
Inoltre, se l’uso della calza è continuativo, dopo circa sei mesi il dosaggio viene meno ed è opportuno sostituire il prodotto.
Come dobbiamo regolarci? Di solito è ora di cambiare la calza se iniziamo ad indossarla con troppa facilità, proprio perché l’azione compressiva dei filati si è esaurita.

Stiffness

La “stiffness” rappresenta la capacità della calza di resistere all’espansione della gamba, cioè a quella forza che agisce in direzione opposta a quella della calza stessa.

L’arto in cui indossiamo la calza elastica, infatti, si espande durante la giornata per il fisiologico aumento del gonfiore. Questo avviene per lo più a causa della contrazione muscolare, che si verifica con i cambi di postura oppure mentre camminiamo o facciamo esercizio fisico.

A cosa serve quindi la “stiffness”? Questa domanda ci permette di spiegare meglio come funziona la pressione della calza e cosa bisogna fare per trattare una gamba gonfia.

gamba gonfia

A riposo, una calza poco elastica e molto rigida esercita meno pressione (stiamo parlando di “stiffness e non di dosaggio), ma quando iniziamo a camminare e i muscoli della gamba si contraggono, la circonferenza diventa maggiore e la pressione verso l’esterno aumenta.
La calza, essendo rigida, oppone resistenza a questa forza espansiva, e si crea una differenza di pressione tra la situazione di riposo e quella di esercizio che si trasferisce alle vene profonde del polpaccio, aiutando il flusso del sangue.
Questa importante differenza di pressione aiuta la gamba a sgonfiarsi dai liquidi in eccesso.

Viceversa, se la calza è molto elastica e poco rigida, eserciterà più o meno la stessa pressione a riposo e in movimento, proprio per le caratteristiche dei materiali che la compongono.
Non venendosi a creare la differenza di pressione necessaria, una calza poco rigida non permetterà quindi di sgonfiare la gamba (ribadiamo che questo avviene indipendentemente da quanto la calza comprime, cioè dal dosaggio).

Ma cosa determina la rigidità di una calza elastica? La “stiffness” dipende dal tessuto che compone la calza e dal tipo di tessitura utilizzata per fabbricarla; vedremo meglio questi aspetti nei prossimi paragrafi.

A cosa serve la calza elastica

Lo scopo della calza elastica è di ridurre il diametro delle vene delle gambe producendo una pressione contraria a quella del sangue.
A cosa serve questa azione? Quando avvertiamo sintomi come dolore o pesantezza alle gambe, o quando le vene si sfiancano a causa dell’insufficienza venosa, il sangue tende a ristagnare e il sistema circolatorio ha bisogno di una spinta esterna.

Secondo un principio fisico, infatti, se il diametro di una vena si riduce, il sangue al suo interno scorrerà più velocemente e i problemi legati all’insufficienza venosa diminuiranno.

Quanto bisogna ridurre il diametro delle vene per avere un miglioramento?
L’effettiva azione della calza elastica dipende dalla posizione che assumiamo, perché la pressione del sangue cambia di molto tra la posizione distesa e quella eretta.

Se siamo sdraiati, ad esempio, serve una pressione di almeno 20 mmHg per restringere in maniera significativa le vene profonde della gamba; se siamo seduti il valore sale a 50 mmHg circa e se siamo in piedi addirittura a 70-80 mm Hg.
Queste pressioni sono decisamente troppo elevate per essere trasferite in una calza elastica, che risulterebbe impossibile da indossare.
Per avere una azione terapeutica sono sufficienti pressioni minori (da 18 a 24 mmHg circa); il risultato è che le valvole venose funzionano meglio e impediscono al sangue di tornare indietro verso la caviglia.

Per lo stesso motivo, la calza elastica previene l’insorgenza della trombosi venosa, una complicanza da tenere sempre presente in presenza di vene varicose.

Un’altra azione della calza elastica è quella di ottimizzare la funzione di pompa dei muscoli del polpaccio, che aiutano il sistema venoso e linfatico a drenare l’acqua proveniente dai tessuti delle gambe.
Per questo chi soffre di gonfiore, dolore o pesantezza alle gambe potrà trarre beneficio dall’uso di una calza, purché prescritta correttamente.

Come è fatta la calza elastica

La tecnica di fabbricazione della calza elastica, e in particolare il tipo di maglia con cui viene creata, conferisce al prodotto proprietà diverse.

Maglia circolare

I macchinari che producono questo tipo di calza elastica sono costituiti da tamburi di forma circolare con pile di aghi molto sottili.
Per questo i filati che si prestano a questa tessitura sono molto fini, e le calze elastiche prodotte sono di solito esteticamente gradevoli ed eleganti.

La maglia determina sulla calza il livello di flessibilità, traspirazione e nitidezza oppure opacità, mentre il filo di trama è responsabile della pressione esercitata.

Maglia circolare rigida

La tecnica di fabbricazione è la stessa della maglia circolare, ma la distribuzione del dosaggio lungo la calza è più uniforme.

Inoltre, la calza elastica fabbricata in questo modo ha una “stiffness” leggermente maggiore.
Questo effetto si ottiene grazie ad un pattern di intreccio diverso, nel quale c’è una maggiore densità di loop (asole) ad incastro, che danno alla calza più resistenza all’espansione.

Si tratta di una calza ibrida tra la trama circolare e la trama piatta, che spesso non raggiunge livelli di compressione certificabili come terapeutici (vedremo tra poco cosa significa).

Maglia piatta

Questo tipo di calza viene prodotta con macchine a base piatta in cui gli aghi hanno una disposizione lineare, sono più grossi e per questo possono tessere fili di trama più spessi.

Di conseguenza, i filati che si prestano a questa tessitura sono più grossolani rispetto a quelli lavorati a maglia circolare. La calza prodotta è maggiormente spessa e ha una “stiffness” massima.

Tipologie di calza elastica

La calza elastica può essere classificata in base al tipo di compressione esercitata oppure in base alla sua funzione, in particolare in base a quale problema intende prevenire o risolvere.

Tipo di compressione

Esistono la calza a compressione graduata e la calza a compressione progressiva.

Calza elastica a compressione graduata

Questo tipo di calza elastica è il più utilizzato, e come vedremo più avanti appartengono a questa categoria le calze certificate come terapeutiche.

In questa calza la pressione esercitata è massima alla caviglia e decresce man mano che si sale verso la coscia. Lo scopo, infatti, è di contrastare in modo equilibrato la pressione del sangue nelle vene, che in posizione eretta è maggiore in posizione declive a causa della forza di gravità.

La calza elastica a compressione graduata si realizza solitamente con una trama piatta, creando un maggiore “stretch” nel tessuto a livello della caviglia e riducendolo via via che si sale verso la coscia (sempre per il principio fisico che abbiamo visto prima).

Calza elastica a compressione progressiva

Questa calza elastica esercita una pressione maggiore al polpaccio rispetto alla caviglia.
Come mai? Lo scopo è quello di massimizzare l’efficienza della pompa muscolare, per favorire il flusso di sangue verso il cuore.

Secondo alcuni studi, infatti, questo tipo di calza è risultato più efficace nel migliorare il flusso di sangue a livello dalle gambe, con lo svantaggio però di provocare più facilmente gonfiore alla caviglia.

La compressione progressiva sembra anche migliore nel ridurre sintomi come dolore e pesantezza alle gambe, almeno nei soggetti con insufficienza venosa. Inoltre, questa calza è tendenzialmente più facile da indossare.
Ricordiamo tuttavia che, proprio per le sue caratteristiche di compressione, la calza a compressione progressiva non appartiene alla categoria delle calze terapeutiche (le vedremo tra poco).

Funzione della calza

In base alla sua funzione, la calza elastica può essere definita preventiva o terapeutica.

Calza elastica preventiva

La calza elastica preventiva è costituita solitamente dalla sola maglia, senza il filo di trama; per questo motivo non può esercitare pressioni tali da poterla definire terapeutica.

Se ne distinguono due tipi diversi, a seconda che lo scopo sia quello di prevenire l’insufficienza venosa oppure la trombosi.

Prevenzione dell’insufficienza venosa

Questa calza elastica esercita una pressione non terapeutica per alleviare sintomi come dolore o pesantezza alle gambe, soprattutto in individui che per abitudini lavorative passano molto tempo in piedi o seduti.

La calza elastica preventiva si misura di solito in denari, una grandezza che non ha nulla a che fare con la compressione esercitata ma che indica solamente il peso del filato della calza.
Una calza da 70 denari, ad esempio, può alleviare alcuni sintomi grazie al suo effetto compressivo, ma la pressione effettiva che esercita sarà diversa a seconda del materiale di cui è fatta (paradossalmente potrebbe comprimere di più rispetto ad una calza da 140 denari fatta di un materiale più leggero).

In generale, comunque, la pressione esercitata da una calza elastica di questo tipo non supera i 18 mmHg.

Prevenzione della trombosi

La trombosi venosa è una complicazione grave che avviene quando il sangue all’interno di una vena coagula improvvisamente. Il pericolo principale, in questi casi, è che si stacchi un frammento solido che, seguendo il flusso del sangue, provochi una embolia ai polmoni.
Per questo è importante prevenire la trombosi in situazioni a rischio come interventi chirurgici, gravidanza, fratture delle ossa oppure immobilizzazione prolungata a letto.

La calza elastica preventiva per la trombosi è tipicamente di colore bianco e si fa indossare in ospedale subito dopo un’operazione o dopo il parto.
Mentre siamo sdraiati a letto, essa esercita una blanda compressione che aiuta a far scorrere meglio il sangue, evitando che si coaguli.

La calza elastica preventiva per la trombosi funziona quando stiamo distesi

Bisogna tuttavia ricordare che questa azione terapeutica scompare completamente appena ci alziamo in piedi, proprio perché la pressione del sangue alla caviglia aumenta di molto. Di conseguenza, questa calza non serve a nulla se la indossiamo in posizione eretta, magari mentre camminiamo per il corridoio come spesso si vede fare nei reparti ospedalieri.

Calza elastica terapeutica

La calza elastica terapeutica possiede determinati standard qualitativi che la certificano come dispositivo medico terapeutico e non preventivo.
Le sue peculiarità sono la pressione ben definita che esercita nei vari punti della gamba e la precisa decrescita di questa stessa pressione dalla caviglia alla coscia.

La calza elastica migliora il risultato della scleroterapia dei capillari

Le caratteristiche che definiscono la calza elastica terapeutica fanno riferimento alle normative tedesca (RAL-GZ 387), francese (NFG 30-102B) e più recentemente europea.
Inoltre, i valori in mmHg che troviamo nella confezione della calza si riferiscono alla pressione esercitata alla caviglia, in particolare nel punto al di sopra dei malleoli.
Sulla base di questo valore, si distinguono calze di prima, seconda o terza classe, che vanno prescritte a seconda della gravità della patologia da trattare.

Prima classe

Secondo la normativa tedesca, questa calza elastica esercita pressioni alla caviglia comprese tra 18 e 21 mmHg.
Si utilizza in caso di pesantezza o dolore alle gambe, oppure per ottimizzare il risultato in corso di scleroterapia dei capillari o per il trattamento delle vene visibili sulle gambe.

Seconda classe

Questa calza è ideale per le persone che soffrono di insufficienza venosa; la pressione alla caviglia è compresa tra 22 e 32 mmHg.
Si utilizza in presenza di vene varicose, come terapia dopo una trombosi oppure dopo un intervento chirurgico di asportazione delle varici.

Terza classe

Si tratta di una calza particolare che esercita pressioni molto alte (34-46 mmHg) da prescrivere solo in caso di gravi linfedemi alla gamba, dopo una adeguata terapia decongestiva.

Come scegliere il prodotto più adatto

La calza elastica andrebbe sempre prescritta da un medico specialista in ambito flebologico. Tuttavia, è comunque utile avere alcune nozioni basilari nel caso non disponessimo di una prescrizione, se non altro per evitare di acquistare un prodotto che poi si riveli inutile.
I fattori da considerare riguardano in particolare il tipo di filato e la forma della calza.

Filato

La scelta del filato determina le diverse caratteristiche del filo di trama, e quindi le differenti proprietà compressive della calza.
Parliamo in questo caso di calza elastica terapeutica, proprio per la presenza del filo di trama.

Microfibra

La microfibra è un materiale molto sottile, addirittura più della seta.
PRO: Molto leggera e traspirabile, ben tollerata, è adatta a persone giovani che non vogliono rinunciare all’eleganza e al comfort pur indossando un presidio terapeutico.
CONTRO: Si tratta di un tessuto fragile e dal costo elevato, che mal si adatta alle variazioni di circonferenza degli arti; va evitata quindi nei soggetti obesi.

Materiale sintetico

Il materiale sintetico può essere di diverso tipo e i vari materiali si possono utilizzare anche in combinazione tra loro. I più usati sono il Nylon (derivato dalle poliammidi), e le fibre di poliuretano come l’Elastam.
PRO: Questa calza è più spessa della microfibra, ma è comunque sufficientemente leggera, elegante e vestibile. Inoltre, resiste maggiormente all’usura e si asciuga in fretta dopo il lavaggio. In assoluto è la calza più versatile e che personalmente prescrivo più spesso.
CONTRO: I materiali sintetici possono essere allergizzanti.

Cotone

Si tratta di un altro materiale molto usato; la calza in cotone può avere spessori variabili.
PRO: Molto traspirante, è l’ideale per le persone che soffrono di dermatiti o allergie cutanee.
CONTRO: Questa calza risulta un po’ meno estetica, a seconda comunque dello spessore del cotone. Ricordiamoci inoltre che può essere un po’ più difficile da indossare.

Caucciù

Il caucciù viene estratto dal lattice di alcune piante che producono gomme naturali; lo si trova per lo più in Asia e in Amazzonia.
PRO: Si tratta di un materiale molto elastico, che attutisce bene il gonfiore degli arti e mantiene un’ottima compressione durante la giornata, nonostante la grande estensibilità.
Ha anche una elevata “stiffness”, quindi è la calza ideale per ottenere compressioni importanti e pressioni più alte durante l’esercizio muscolare.
Per questo la calza in caucciù è ottima per mantenere la gamba sgonfia dopo un ciclo di bendaggi.
CONTRO: Essendo molto rigida, non è una calza versatile e va prescritta solo in casi specifici.

Forma del tutore

La forma del tutore dipende molto dalle abitudini personali. L’importante, tuttavia, è che la calza comprima almeno a livello del polpaccio, dove agisce la pompa muscolare.

Gambaletto

Il gambaletto è un tipo di calza molto diffusa; è comodo ed è del tutto simile ad un calzino lungo che arriva fino al ginocchio.
PRO: Ovviamente è l’ideale per l’uomo, ed è la tipologia di calza elastica più facile da indossare in assoluto.
Va molto bene come calza preventiva per chi soffre di pesantezza alle gambe, ma per lo stesso problema può tranquillamente essere usata una prima classe, se vogliamo avere un effetto un po’ più forte.

Il gambaletto è una tipologia di calza elastica ideale per l'uomo
CONTRO: Si limita a comprimere sul polpaccio quindi svolge la sua funzione fondamentale, ma può non essere sufficiente se sono presenti vene varicose sulla coscia o se c’è un reflusso lungo la vena safena.
In questi casi, una compressione completa previene l’insorgenza di trombosi e riduce il reflusso di sangue.
Ovviamente non è l’ideale per la donna, che preferisce indubbiamente prodotti più “femminili”.

Autoreggente

Si tratta di una calza adatta ovviamente alla donna.
PRO: Generalmente è più comoda rispetto al collant perché non stringe sulla pancia, ed è ideale da usare in corso di scleroterapia dei capillari.

La calza elastica autoreggente è ideale per la donna
CONTRO: Potrebbe scivolare verso il basso se la coscia è troppo sottile; si può evitare questo inconveniente bagnando la parte in silicone che assicura la tenuta.
Ricoriamoci che la stessa parte reggente in silicone può causare allergie.

Monocollant

Si tratta di una calza che comprime interamente un solo arto, e di solito ha una cinghia che permette di avvolgerla in vita.
PRO: Ideale per chi ha problemi di vene varicose su un solo arto, oppure da usare dopo un intervento alla safena.
Può essere usata all’occorrenza anche per l’altro arto, semplicemente rovesciandola.

Il monocollant è la calza elastica ideale dopo un intervento
CONTRO: Sicuramente meno apprezzata dalle donne, che preferiscono una calza che copra entrambi gli arti.

Collant

PRO: Ideale per la donna e sicuramente molto estetica e versatile, quelle in microfibra o materiale sintetico sembrano a tutti gli effetti delle calze normali.
Effettuano una compressione totale e ottimale su entrambi gli arti.
CONTRO: Possono risultare fastidiose soprattutto in chi è sovrappeso, perché stringono fino alla pancia; molto dipende comunque dalle preferenze personali.
Ovviamente sono più difficili da portare per l’uomo.

Punta chiusa o punta aperta?

Un ultimo aspetto su cui soffermarsi riguarda il tipo di copertura sul piede.

La punta chiusa è sicuramente più elegante, e per tale motivo si adatta meglio al gambaletto e al collant. Lo svantaggio della punta chiusa è che risulta un po’ più difficile da indossare.

La punta aperta è più facile da indossare e si adatta bene soprattutto al monocollant. Tuttavia, può dare fastidio perché lascia scoperta la parte anteriore del piede, soprattutto per un motivo legato alla sudorazione.

La calza elastica può essere a punta aperta

Come usare la calza elastica

Il corretto uso della calza elastica consente di evitare molti dei problemi comunemente riferiti dai pazienti che la indossando.
Questo aumenta l’efficacia del trattamento compressivo e il comfort per il paziente stesso.

Come abbiamo detto, la calza elastica andrebbe sempre prescritta da un medico competente in materia. La prescrizione dovrebbe comprendere la presa  misure e la scelta di materiale e tipologia del prodotto.
Ciò purtroppo non avviene di frequente, con il risultato che il paziente si reca nella sanitaria di riferimento senza una precisa indicazione; a volte è la sanitaria stessa a non suggerire il prodotto più idoneo.

Le misure andrebbero prese da distesi e non in piedi, preferibilmente al mattino, per essere più veritiere possibile (evitando quindi la presenza di contrazione muscolare o gonfiore).
I punti da misurare sono le circonferenze alla caviglia sopra i malleoli, al polpaccio e alla coscia, e le lunghezze di gamba e coscia.
Se le misure non rientrano tra quelle standard, come in caso di statura particolarmente alta, si procede con la prescrizione di una calza su misura.

Una volta acquistata, la calza elastica va indossata al mattino e tolta la sera, evitando di usarla di notte salvo particolari indicazioni (ad esempio dopo un intervento alle vene).
Essendo la calza elastica percepita come “stretta”, indossarla può risultare difficile soprattutto se ha una compressione elevata.

Come risolvere questo problema?
– se la punta è aperta, nel kit di solito è presente una ciabattina di tessuto sottile che, indossata prima della calza, ne agevola lo scorrimento per poi essere rimossa;
– se la punta è chiusa si indossa la calza rovesciandola fino al tallone, si fa passare prima il piede fino al tallone stesso, quindi si tira gradualmente verso l’alto il versante interno della calza, più stretto, intervallandolo con trazioni del versante esterno, più morbido;
– se si è in difficoltà ci si può aiutare con dei guanti da cucina; non bisogna tirare troppo per evitare di danneggiare il tessuto, soprattutto se la calza è fatta di microfibra.

Dopo aver indossato la calza per la prima volta, si controlla la correttezza delle misure provando a pinzare la calza con le dita a livello del tendine d’Achille (a questo livello non si dovrebbe riuscire a sollevare il tessuto), e a livello del polpaccio appena sotto il ginocchio (si dovrebbe riuscire minimamante a sollevarla).

Quando non usarla

In generale, in presenza di una gamba gonfia la calza elastica non ha alcuna utilità nel risolvere il problema, e se troppo stretta può addirittura fare dei danni creando un “effetto laccio”.
Questo avviene perché, come abbiamo visto, per sgonfiare una gamba con problemi venosi o linfatici bisogna applicare dei bendaggi più rigidi che creino una differenza di pressione tra il riposo e l‘esercizio.
Quando la gamba sarà sgonfia, una calza elastica correttamente prescritta potrà mantenere il risultato.

Ci sono delle eccezioni a questa regola, come la presenza di lieve edema che si osserva alla sera nelle persone anziane oppure ulcere venose poco secernenti con gamba sgonfia.
In assenza di gonfiore e infiammazione possiamo applicare una calza elastica, purché abbia caratteristiche di dosaggio e “stiffness” compatibili con il problema che vogliamo trattare.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5846867/pdf/10.1177_0268355516689631.pdf

https://www.magonlinelibrary.com/doi/pdfplus/10.12968/jowc.2019.28.Sup6a.S1

 

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Leggi anche Scleroterapia dei capillari: come migliorare l’aspetto delle gambe e Vene visibili sulle gambe: cosa sono e come si eliminano efficacemente

 

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I capillari sulle gambe possono essere trattati con scleroterapia o laser

Capillari sulle gambe: scleroterapia o laser?

La presenza di capillari sulle gambe è un problema estetico molto sentito soprattutto nella popolazione femminile, perchè provoca disagio nello scoprire le gambe e arriva a compromettere anche l’attività sociale.

Secondo un sondaggio eseguito tra le donne americane, i capillari sulle gambe rappresentano il problema estetico maggiormente percepito in assoluto rispetto agli altri, compresi gli inestetismi del viso come le rughe.
Infatti, la presenza di questi vasi sanguigni può condizionare l’autostima e influenzare i comportamenti sociali, a causa dell’imbarazzo provocato dall’esposizione delle gambe come quando si indossano una gonna o un bel vestito.

Le principali metodiche per eliminare questo problema e sono la scleroterapia e il laser.
Molte persone, però, li ritengono dei trattamenti inutili, sulla base del fatto che dopo averne chiusi alcuni ne spunterebbero degli altri.
Inoltre, c’è spesso confusione in merito a quale sia la terapia più efficace, o quando sia indicata l’una piuttosto che l’altra.
Per questo motivo, sono in molti a rinunciare a curarsi e ad accettare passivamente il problema, subendone però le conseguenze negative.

Dobbiamo invece ricordare che la scleroterapia e il laser sono dei trattamenti efficaci per eliminare i capillari sulle gambe; in questo articolo vedremo come funzionano, quando sono indicati e quali risultati danno.

Cosa sono i capillari sulle gambe

I capillari sulle gambe si chiamano, nel linguaggio medico, teleangectasie.
Si tratta di piccoli vasi sanguigni presenti sotto la cute delle gambe, che si dilatano e diventano progressivamente visibili assumendo un colore rosso, blu oppure violaceo. La loro presenza salta all’occhio rovinando l’estetica delle gambe.
Anche la forma è variabile; ce ne sono di sparsi e lineari, spesso di colore rosso, oppure a forma di albero dritto o rovesciato, o ancora di forma stellata oppure a macchia.

I capillari sulle gambe possono essere a forma di albero

I capillari sulle gambe possono essere isolati oppure associati all’insufficienza venosa, una malattia nella quale le vene delle gambe perdono la capacità di spingere il sangue verso il cuore diventando via via più dilatate e causando sintomi come dolore e pesantezza.
Per questo motivo, in presenza di questo problema è fondamentale studiare la circolazione venosa con un ecodoppler.

Molte persone che soffrono di capillari sulle gambe riferiscono anche sintomi come bruciore, dolore, pesantezza o affaticamento alle gambe stesse, o ancora crampi notturni.
Uno studio di alcuni anni fa ha esaminato un gruppo di donne sottoposte a scleroterapia per la presenza di capillari, che riportavano appunto questi sintomi; di queste, circa la metà ha riferito un miglioramento dei disturbi dopo il trattamento.

Perché si formano i capillari sulle gambe

Le cause alla base della formazione dei capillari sulle gambe non sono ancora del tutto chiarite.
Secondo alcuni studi, i capillari si svilupperebbero sulla base degli stessi meccanismi dell’insufficienza venosa, quindi il ristagno di sangue da un lato e il danneggiamento delle valvole presenti all’interno delle vene dall’altro. Ciò determinerebbe una inversione del flusso del sangue, chiamata reflusso, e la dilatazione dei vasi stessi.

A volte, tuttavia, i capillari si formano anche in assenza di problemi venosi. Le ipotesi, in questo caso, sono legate alla presenza di scarso ossigeno nei tessuti, che provocherebbe l’attivazione delle cellule vascolari e la nascita di nuovi vasi sanguigni, più dilatati e visibili.
Questo meccanismo di formazione dei capillari potrebbe spiegare la loro associazione con la cellulite.

I fattori predisponenti allo sviluppo dei capillari sulle gambe, invece, sono maggiormente noti.
I principali sono la storia familiare positiva, le gravidanze e l’assunzione di ormoni estrogeni, oltre che i traumi o il mantenimento della posizione seduta o eretta per molto tempo.

Le donne sono più soggette a questo problema rispetto agli uomini, in modo direttamente proporzionale al numero di gravidanze e all’assunzione di terapia ormonale. I maschi affetti, invece, hanno più spesso una sottostante insufficienza venosa.
In ogni caso, il problema aumenta con l’avanzare dell’età.

La popolazione tipo di soggetti che presentano capillari sulle gambe in assenza di insufficienza venosa è rappresentata quindi da donne, nelle quali il problema compare tra i 30 e i 50 anni e spesso si accentua in concomitanza con modifiche dell’assetto ormonale, come in gravidanza.
Spesso, come abbiamo detto, c’è anche una storia familiare positiva.

Come si eliminano i capillari sulle gambe

I principali trattamenti per eliminare i capillari sulle gambe sono la scleroterapia e il laser.
Vediamoli nel dettaglio per capire quando è meglio orientarsi su uno piuttosto che sull’altro.

Scleroterapia

La scleroterapia è una tecnica mini-invasiva di trattamento dei capillari. Consiste nell’iniettare una piccola quantità di farmaco all’interno di questi vasi oppure nella vena che li alimenta, con lo scopo di provocarne una sclerotizzazione.
La sostanza, infatti, reagisce con le cellule della parete vascolare, provocando un indurimento del capillare che lo occlude progressivamente, rendendolo non più visibile.

La scleroterapia può eliminare i capillari sulle gambe

Il trattamento di scleroterapia si effettua in sedute ambulatoriali di 30-45 minuti, intervallate da un periodo di qualche settimana durante il quale si verifica una transitoria reazione infiammatoria a livello dei capillari iniettati. Non bisogna spaventarsi, perché questa fase fa parte del normale processo di scomparsa del capillare.

Nell’arco del trattamento è importante non esporsi al sole, per evitare che compaiano macchie pigmentate sulla pelle che vanificherebbero il risultato estetico. Per lo stesso motivo, bisogna evitare le alte temperature, come in caso di saune o bagni termali, ed è sconsigliato fumare per non incrementare il rischio di trombosi.

Per ottimizzare il risultato estetico, infine, bisognerebbe indossare una calza elastocomopressiva idonea, che agisce in sinergia con la scleroterapia nel favorire la riduzione/scomparsa dei capillari. La calza può anche alleviare sintomi come dolore e pesantezza alle gambe.

Quando è meglio la scleroterapia

In generale, se i capillari sulle gambe hanno un diametro superiore a 1-1,5 mm (si tratterebbe in questo caso di vene visibili sulle gambe chiamate vene reticolari) la scleroterapia è considerata il trattamento di prima scelta.
In realtà, ci sono studi che hanno confrontato le due metodiche mostrando una sostanziale equivalenza nei risultati, sempre per quanto riguarda capillari di queste dimensioni; molto dipende dall’esperienza dell’operatore e dalla padronanza della tecnica.

Quando evitare la scleroterapia

In alcune situazioni la scleroterpia va però evitata ed è meglio orientarsi sul laser, sempre che la tipologia di capillare possa beneficiare di questo trattamento.

Ecco le situazioni principali:
– pazienti che hanno paura degli aghi (agofofici): queste persone non tollerano l’idea di essere punte e non accettano questa metodica di trattamento;
– pazienti che sono allergici al farmaco scleroterapico: ci sono fenomeni di allergia che, ovviamente, controindicano in maniera assoluta l’iniezione di questa sostanza, perché potrebbe provocare reazioni anafilattiche molto gravi;
– pazienti che hanno controindicazioni alla scleroterapia, come la presenza di PFO (forame ovale pervio, una malformazione molto diffusa nella quale c’è una comunicazione tra la parte destra e quella sinistra del cuore) o che sono ad alto rischio di trombosi.

Laser

Il laser è un fascio di luce che, a contatto con la cute, subisce una conversione della sua energia luminosa in energia termica; questa energia brucia determinati composti cutanei chiamati cromofori.
Ogni laser, quindi, ha un bersaglio specifico da “bruciare”, che dipende da un parametro chiamato lunghezza d’onda.
Nel caso dei capillari sulle gambe, il bersaglio da colpire è l’emoglobina contenuta nel sangue.

Il processo che subisce il capillare colpito dal laser diventa simile ad una sclerotizzazione, in quanto il calore sprigionato distrugge la parete del vaso sanguigno, che di conseguenza scompare.
Il laser ideale, quindi, dovrebbe avere una lunghezza d’onda idonea a colpire l’emoglobina del sangue e penetrare a sufficienza per colpire il bersaglio senza distruggere i tessuti circostanti.
Inoltre, per ottenere l’effetto desiderato, l’impulso deve durare il tempo necessario, che sarà tanto maggiore quanto più grosso sarà il capillare da bruciare.

In sintesi, le variabili che caratterizzano il trattamento laser sono la lunghezza d’onda della luce che determina quale bersaglio verrà colpito, la durata dell’impulso luminoso e la dimensione dello spot (che cambieranno a seconda del diametro del vaso da colpire), e ancora l’intensità dell’impulso.

Il laser può eliminare i capillari sulle gambe inferiori a 1,5 mm

Il trattamento laser dei capillari sulle gambe può essere problematico proprio perché i vasi da colpire hanno diametri e profondità variabili.
Uno dei laser maggiormente testati per questa patologia è il Neodimio YAG. La sua peculiarità è che presenta una buona affinità per l’emoglobina e uno scarso assorbimento da parte della melanina, che gli consente di essere usato anche nelle pelli più scure senza rischiare fenomeni di de-pigmentazione, minimizzando così le lesioni ai tessuti vicini.

Il trattamento laser dei capillari sulle gambe è un po’ fastidioso; si può avvertire un lieve dolore simile ad una bruciatura, che di solito è ben tollerato.
I capillari più piccoli, soprattutto quelli violacei, spariscono quasi subito, mentre quelli più grossi e diventano progressivamente più scuri e scompaiono nel giro di qualche giorno.
A volte è necessaria una seconda seduta di laser, da eseguire a distanza di un po’ di tempo.

Dopo il trattamento con laser può comparire un leggero gonfiore, che risolve nel giro di qualche giorno; il rossore, invece, dura qualche settimana.
Se il trattamento laser dei capillari sulle gambe è effettuato correttamente, le macchie di iperpigmentazione (cioè le macchie più scure) compaiono raramente, così come le ipo-pigmentazioni (le macchie più chiare).

Un’ultima complicazione del laser, da tenere sempre presente, è la comparsa di ulcerazioni.
Si tratta di lesioni della cute dovute alla troppa energia sprigionata dal laser, come quando si tratta in maniera reiterata una regione perché non si riscontra subito il risultato auspicato, ignorando che è necessario del tempo e che quindi la zona non va trattata eccessivamente.

Dopo il laser è opportuno applicare una crema idratante e non è raccomandata la calza elastica

Quando è meglio il laser

In generale, in caso di capillari molto piccoli, cioè di diametro inferiore a  0,5-1 mm, il laser è maggiormente indicato perché la puntura selettiva di questi vasi risulterebbe difficoltosa.

Un’altra situazione adatta al trattamento laser è il matting.
Il matting è una rete molto disordinata e intricata di nuovi capillari che si forma quando viene chiusa una vena che drena del sangue da un territorio cutaneo.
Questo può avvenire, ad esempio, nel momento in cui viene sclerotizzata oppure asportata una vena sana. Il sangue che ristagna, in questo caso, provoca la dilatazione di capillari fino ad allora nascosti, che spuntano in maniera disordinata sulla cute rendendosi visibili.
Poiché sono difficili da pungere, i capillari di un matting si possono trattare più efficacemente con il laser.

Il matting è un parrticolare tipo di capillari sulle gambe

Un esempio di matting

Infine, alcune zone della gamba come la caviglia e il cavo popliteo, oppure il dorso del piede, sono più idonee al trattamento con laser.
In queste aree, infatti, c’è poco tessuto sottocutaneo e le valvole venose possono avere un orientamento sovvertito; in tal caso è più facile provocare complicazioni se si utilizza la scleroterapia.

Perché a volte i risultati non sono buoni

I capillari non sono tutti uguali, rappresentano una problematica complessa e a volte il trattamento può addirittura peggiorare la situazione; questo avviene per lo più quando la situazione vascolare non è stata studiata correttamente.

Immaginiamo i capillari sulle gambe come una rete intricata di vasi collegati tra loro, nei quali il sangue si muove dai più piccoli verso i più grandi. A volte i capillari diventano visibili perchè il sangue refluisce da vasi più grandi, mentre altre volte il sangue va nella giusta direzione ma il suo flusso è ostacolato, rendendo i capillari più vistosi e dilatati.
A seconda dei casi, quindi, il trattamento dovrà essere differente. Ricordiamo che, se viene sclerotizzato un vaso che drena sangue in modo corretto, potranno formarsi dei nuovi capillari.

Inoltre, dobbiamo tenere presente che la presenza di capillari sulle gambe non può essere eliminata in modo definitivo, mentre possiamo intervenire sui fattori di rischio, sempre in maniera relativa (l’esposizione ormonale e la gravidanza sono fattori determianti).
Infine, l’utilizzo della calza elastocompressiva può migliorare il risultato della scleroterapia, e l’assunzione di alcuni flebotonici è di aiuto nel contrastare il problema.

Prima di qualsiasi trattamento, il mio consiglio è di rivolgersi ad uno specialista che possa effettuare uno studio accurato della circolazione con ecodoppler.

Fonti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6327418/pdf/etm-17-02-1106.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7389636/pdf/CD008826.pdf

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3458278/pdf/TSWJ2012-197139.pdf

https://www.ejves.com/action/showPdf?pii=S1078-5884%2808%2900460-7

 

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